3 - Painkiller

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- Sei sicura di non volere un antidolorifico?

- Sto bene.

- Lydia...

- Davvero - ribattei, premendo più forte le unghie sul braccio sinistro mentre mia madre, con una pinzetta, rimuoveva le ultime schegge di vetro dal mio palmo. Doleva, bruciava, ma volevo che fosse così. Era solo un altro modo per trattenere la rabbia, per fare in modo che si sostituisse al dolore. Perché, se nel dolore sarei annegata, nella rabbia invece avrei trovato la forza per rialzarmi e affrontare la sofferenza. Almeno lo speravo.

- I piedi sono a posto? - mi domandò lei, ispezionando le ferite per accertarsi di aver estratto tutto il vetro.

- Non ci ho anche camminato sopra.

- Almeno hai ripulito? - insistette cominciando a passarmi sul palmo una garza imbevuta di disinfettante. Strinsi i denti e mi morsi la lingua: questo sì che faceva male.

- Sì.

Terminò l'operazione in silenzio, probabilmente tentando di fare conti con il fatto che sua figlia, alla notizia della morte del padre, avesse trovato conforto nell'autolesionismo.
E che il figlio minore si fosse barricato dietro un muro di silenzio che nessuna di noi riusciva a penetrare. Era rimasto accoccolato sul letto di camera sua per tutto il pomeriggio, abbracciando i suoi peluche e non spiaccicando mezza parola.

- Stasera non me la sento di cucinare. Ordinate qualcosa da asporto - disse fasciandomi la mano con della garza pulita.

- Tu non mangi?

Lei scosse la testa. In quel semplice movimento vidi l'enormità del peso che le gravava sulle spalle e sull'animo. Era stremata, e voleva solo crollare.

- Non credo che Jimmy voglia mangiare, e nemmeno io ho molta fame. Mi preparo qualcosa da sola, in caso.

Lei mi rivolse un sorriso stanco. - Va bene.

Poi ripose la mia mano sul tavolo della cucina. - Ho finito: le ferite non sono molto profonde, però stai attenta ai movimenti che fai.
Sospirò. - Adesso io...

- Vai a riposarti mamma, ci penso io qui - la bloccai. Lei non protestò: mi sorrise, mi baciò sulla testa e salì in camera sua. Tutto con movimenti pesanti ed infinitamente stanchi.
Sapevo che non avrebbe dormito molto, che probabilmente avrebbe pianto o cercato di sfuggire al dolore in qualche modo, ma non poteva continuare a fingere che ogni azione non le costasse uno sforzo immane. Non poteva, non con me.

Riposi pinza, garza, disinfettante - insomma tutto quello che lei aveva usato per medicarmi - nell'apposito scaffale in bagno, lavai le tazze e i piatti della colazione e mi preparai un panino ma, siccome mi sentivo ancora più sola a stare giù, in un grande spazio vuoto e silenzioso, portai il piatto in camera insieme ad un bicchiere d'acqua, che stavolta avrei riportato in cucina intero.
Li posai sulla scrivania e passai in camera di mio fratello, trovandolo così come lo avevo lasciato due ore prima. Pareva immobilizzato, come se il tempo per lui si fosse fermato, e invece avesse continuato a scorrere per noi.

- Ehi campione - mormorai avvicinandomi e inginocchiandomi ai piedi del letto. Lui mi guardava ma non replicò, e in verità non mi aspettavo che lo facesse.

- Io fra poco vado a dormire. Hai fame? Vuoi che ti prepari qualcosa?

Lui scosse la testa. - Ok - dissi sorridendogli. Era un inizio.

- Per qualsiasi cosa vieni e mi svegli. Va bene?

Lui annuì. Per il momento non potevo fare di più, così lo baciai sulla guancia per fargli capire che io c'ero sempre per lui, gli accarezzai la testa e uscii, accostando la porta.
Dischiusi un poco anche quella della camera dei miei genitori, e gettai un'occhiata all'interno. Era molto buio, le tapparelle abbassate e le luci spente, così riuscii solo a distinguere un'ombra più scura che giaceva sul letto, immobile, protetta dalle coperte. Forse, a dispetto delle mie convinzioni, mia madre si era addormentata davvero. O forse fingeva.

Richiusi la porta e feci per tornare in camera, quando udii mio fratello che mi chiamava. Tornai subito in camera sua, ansiosa di sapere cosa volesse dirmi e felice perché finalmente aveva parlato. - Sì?

Ma mio fratello non voleva parlare. Piangeva. Allungò le braccia verso di me, ed io lo raggiunsi sul letto e lo abbracciai forte; lui nascose la testa contro il mio petto e iniziò a singhiozzare. Io lo circondai con le braccia come per nasconderlo al mondo esterno, per fargli scudo col mio corpo contro il dolore e la sofferenza, per trasmettergli tutto il mio amore.

Restammo così per un po'. Ad un certo punto lui mi gettò le braccia al collo e spostò la testa sulla mia spalla, inzuppandomi la felpa. Non mi importava: se me l'avesse chiesta per poterla strappare, gliel'avrei data. Piangeva per sfogarsi e buttare fuori ciò che lo opprimeva, e io sapevo quanto ero importante. Avevo distrutto un bicchiere per lo stesso motivo.

Quando smise di piangere si staccò da me e mi guardò asciugandosi il naso con la manica del maglione. - Resti qui a dormire?

- Ma certo.

In quel momento il suo stomaco brontolò, rivelando ciò che lui aveva negato solo pochi minuti prima. - Hai fame?

Questa volta annuì. Pareva più calmo, come quando il cielo diventa sereno dopo un violento temporale: l'aria è umida e fredda, ma almeno non piove più.

- Aspetta qui.

Mi fiondai in camera a prendere il panino, il bicchiere d'acqua e il mio pigiama, poi spensi la luce e lasciai quel posto.
Jimmy ed io ci dividemmo l'acqua e il panino, che bastarono ad entrambi, poi infilammo il pigiama e ci raggomitolammo sul suo letto. Si stava un po' stretti ma pazienza. Lui aveva bisogno di contatto fisico, io non di rimanere da sola; nel buio si annidava il male, e non volevo affrontarlo. Non ora.

- Davvero papà non lo rivedremo più? - domandò lui in un sussurro. Lo guardai: nel buio, mitigato solo dalla piccola lucetta da notte di fianco alla porta, le sclere dei suoi occhi rilucevano di un bianco opaco.
Sospirai, e mi preparai a rispondere. - No Jimmy, non lo rivedremo più.

Anche se non potevo vederlo bene, né lo sentii piangere, percepii il suo dolore. I suoi occhi ora rilucevano meno, come sprofondando nell'oscurità che ci circondava.

- Mi dispiace.

Non sapevo cos'altro dire. La colpa non era mia, eppure mi sentivo responsabile per la sua tristezza: ero stata io a confermargli ciò in cui probabilmente non voleva ancora credere. Per rincuorarmi dissi a me stessa che prima o poi avrebbe dovuto affrontare la realtà, e allora se ne sarebbe reso conto da solo; forse era meglio che fosse preparato. Che poi "preparato" era un eufemismo: nessuno poteva prepararsi ad una situazione del genere, men che meno un bambino.
Strinsi a pugno le mani, accettando il dolore che mi infliggevano le ferite. Avrei potuto attenuarlo con un semplice antidolorifico, ma volevo che continuasse a sostituirsi a quello per la perdita di mio padre. Perché per la sua morte di antidolorifici non ce n'erano. 

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