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Quella notte l'Apocalisse era giunta. L'apocalisse era nei suoi occhi inquieti, terrorizzati, pieni di una falsa speranza.

La notte aleggiava nella sua piccola stanza claustrofobica, e Merope Mcraven se ne stava stesa sul suo letto di spine, guardando il soffitto crepato dal tempo, le auricolari alle orecchie, ascoltando Time di Hans Zimmer e la mano posata delicatamente sul diario di Venia.

Poteva persino rabbrividire con quella melodia, tutto sembrava collassare in un cumulo di macerie indistinte. Il mondo stesso sembrava finire, risucchiato da una forza soprannaturale, e Merope lo immaginava, eccome se lo immaginava: uno squarcio profondo nel cielo, una tempesta che risucchia la felicità e lo stesso universo che si prende gioco degli umani, ridendo e sghignazzando.

E poi ... be', poi non c'era più niente da dire, perché la mente di Merope fu attraversata da un lampo di malvagio panico che le intorpidì ogni pensiero cosciente.

Un respiro freddo e rauco le attraversò il collo, facendole drizzare i peli sulla nuca e gettandole un brivido lungo l'intera colonna vertebrale. Poi delle dita incrostate e ruvide al tatto si posarono sulla sua spalla e infine Merope cedette e si voltò, mentre qualcosa di bagnato cominciò a scorrerle lungo le cosce, bagnandole i jeans. Era Venia, ma non era lei. Merope scattò, urlando, cadde dal letto ma si rialzò subitissimo, la faccia piegata in una smorfia di puro terrore, l'urina che aumentava man mano che quella sporca e bastarda sagoma le si avvicinava, sghignazzando. Usciva dalla parete e con un sordo tonfo si gettò sul materasso, prendendo il diario di Venia e sfogliandolo.

<<Ti piace leggere i miei segreti, brutta stronza?>> grugnì, e sul suo volto aleggiò un'allegria malata, un riso folle e rauco, da psicotico.

Aveva i capelli lerci incollati alla fronte e alle guance, la pelle colorata di uno strano azzurro pallido e malato, lo stomaco ricoperto di sangue ormai incrostato e divenuto di un nero pece.

E quegli occhi ... quegli occhi erano biglie argentee simili ai fari di un' automobile che illuminavano la stanza di Merope, o simili a quelli di un malvagio mostro che ti scrutano nell'angolino della tua camera, ad aspettare che la notte scenda, ad aspettare te sdraiato sul letto, così da uscire allo scoperto e divertirsi a maciullare la tua carne, sprofondando nelle tue urla.

Poi la faccia di quel mostro

(oh non è Venia sto impazzendo sto impazzendo)

Si piegò in una smorfia di dolore quasi recitato. Si gettò per terra e cominciò a sbattere i piedi, proprio come fa un neonato. Iniziò a piangere talmente forte che quel lamento di morte, quel lamento sofferente era ... era troppo da sopportare. Poi si sedette sulle ginocchia, si asciugò con la punta delle dita lacrime che non esistevano apparentemente e urlò: <<Merope, io non sono felice qui, te lo giuro, ti giuro che qui non sono assolutamente felice! Voglio ritornare nel mondo dei vivi, e prometto che farò la brava bambina. Zio Carol mi sta chiamando e continua a farmi ... a farmi del male!>>

Si divincolava da qualcosa che non esisteva, da qualcuno che evidentemente vedeva solo Venia attraverso quei suoi occhi folli e rabbiosi.

<<Merope, zio Carol mi sta prendendo, Merope! Aiutami! MEROPE!>>

Venia si coprì il viso con le mani, adesso prigioniera delle sue dita, prigioniera di un mondo serpeggiante e codardo.

Scomparve. Nella stanza di Merope calò un silenzio malato.

E quella notte Merope cercò disperatamente l'oblio del sonno, ma non riuscì ad addormentarsi, perché sentiva ancora quello sporco fiato lercio sul suo collo, e subitissimo la sua mente fu inondata da un'oscurità bagnata e al tempo stesso liscia come la seta, asciutta, umidiccia.

E poi, quando il sonno le prese la mano, sussurandole docili parole di ninna nanna, la sua mente formulò un sogno scomposto, un sogno fatiscente e birbante che quando si svegliò il giorno dopo sperò che fosse soltanto un film, ma quello

(oh, no brutta sciocca non è un film ih ih ih)

Be', quel sogno era tutto, quel sogno stava nell'oscurità della mente, e alla mente ogni tanto piaceva l'oscurtià, l'oscurità danzava tutta sola in una stanza spoglia e polverosa, e rideva, oh, come rideva, l'oscurità, un riso folle che annebbiava tutto quanto.

Caro Smerald, ti scrivo ...Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora