Casa

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Quando la voce registrata annuncia la mia fermata riemergo.
Torno ai miei venticinque anni, all'aria condizionata del treno, al sudore gelato sopra la pelle. Sento il mio corpo scontrarsi e scivolare, contro i corpi di tutti quelli in piedi davanti alle porte. 

Il sole è accecante, il cielo di un unico colore. Luminoso e purissimo.
Le mie due esistenze distano circa un'ora l'una dall'altra.
Durante l'adolescenza ho passato interi pomeriggi seduta sulle scale di questa stazione, aspettando che il tempo passasse, e come me altri. Fumando erba, tessendo trame fittissime di sentimenti quasi indissolubili. Tutto sembra lontanissimo. Il sole ha lasciato che tutto evaporasse. Eppure c'è ancora il nostro odore qui dentro.
L'autobus rimbalza da una buca all'altra e ciò che ne consegue è un immane rumore di ferraglia che sbatte contro se stessa.
Una parte del rivestimento superiore si è staccata, ed ora pende a mezz'aria.
L'autobus salta quasi tutte le fermate, a bordo non c'è nessuno a parte un ragazzo seduto qualche posto avanti a me. Prenoto la fermata alzandomi, qualche passo traballante e sono davanti alla porta. Quando l'autista frena vengo catapultata in avanti con tutto il corpo restando ancorata al sostegno, procurandomi uno stiramento al braccio.
Non so quante volte sono scesa a questa fermata. Ogni volta ho la sensazione che questo luogo sia invecchiato senza crescere. Somiglia ad un ragazzino coperto di rughe, dagli abiti logori.
I palazzi vestiti di scritte e crepe, l'immondizia accatastata davanti ai cancelli o abbandonata nei pochi spazi verdi, incolti, coperti di erbacce. All'incrocio proprio di fronte al bar della piazza ogni tanto capita di vedere una capra aggirarsi tra la gente e le macchine. Non so cosa ci faccia lì ma è sempre un ottimo spunto di conversazione. Ogni volta che qualcuno mi accompagna in macchina, quando stiamo per arrivare al punto incriminato mi ritrovo a fare l'annuncio "Attento, dopo la curva potrebbe esserci una capra". Il più delle volte non accade, ma una volta rientrando insieme a Rebecca abbiamo impiegato quasi un'ora per percorrere qualche centinaio di metri. La strada era stata occupata dalle capre che stavano tranquille tra le macchine. Mentre tutti suonavano i clacson come forsennati, Rebecca prese dal cruscotto la bustina della profumeria ed estratto il contenuto mi smaltò le unghie di rosso, cantando a bassa voce "Yellow submarine".
Se immagino l'estate non posso che pensare a quei quarantacinque minuti bloccate in macchina, circondate dalle capre e dal suono dei clacson. L'odore dello smalto e "Yellow submarine".
In questo momento quell'incrocio è completamente libero, come in un film post-apocalittico.
Una parte di me crede alla relatività del tempo. All'eternità. Al fatto che esista ancora una me quindicenne seduta sulle scale della stazione, che sia in procinto di innamorarsi ogni giorno. E credo esista una me ventenne che resterà per sempre seduta sul sedile di una Renault Twingo nera, mentre Rebecca le tiene la mano, cantando.
La mia casa poco al di là della piazza se ne sta su una colata di cemento grigio. Lì sotto è sepolto il giardino di mio nonno. Le radici del nespolo e dell'albicocco le immagino premere per ritrovare la luce. Il viale di calle e ortensie è un fantasma, come la sensazione dell'erba sotto ai piedi, della terra morbida appena innaffiata. La ringhiera delle scale esterne con il gelsomino che ne abbraccia il metallo è un ricordo divorato dalla ruggine.
Vivo qui da sempre. Da quando mi hanno portata in fasce dall'ospedale. Vivevo già qui nel ventre di mia madre.

C'è stato un periodo nel corso della mia vita in cui ho creduto che questo fosse il luogo più bello della terra e mai avrei voluto abbandonarlo. Quel desiderio con gli anni ha assunto le fattezze di una maledizione e ancora oggi non riesco a liberarmene.
Sotto la scala di ferro che porta al mio appartamento hanno accatastato cose di ogni genere, di ogni grandezza e colore. Porte dalla vernice rovinata, vecchi specchi, teli e resti di qualche ristrutturazione. Tutto assieme, un ecosistema di oggetti defunti che continua ad alimentarsi, che crolla su se stesso e viene rimesso in piedi.
Gli inquilini del piano superiore si sono trasferiti a Londra. Prima della partenza hanno lanciato il loro salotto dal terrazzo, ed ora è lì che mi fissa scomposto, ogni volta che mi affaccio a fumare. Il tavolino se ne sta ribaltato con una gamba rotta finita nella parietaria. Quando il vicino si affaccia e mi vede provo quasi vergogna. Come fosse una colpa vivere in un luogo del genere. La finestra mi riassorbe all'interno, chiudendosi senza fare rumore.
I vetri sono sporchi, opachi. Non so quanta pioggia li abbia bagnati dall'ultima volta che li ho puliti. Ad un certo punto non si riuscirà più a vedere fuori, né a sbirciare dentro. 
Ci sono dei giorni in cui vorrei grattare con le unghie le pareti azzurre e vedere gli strati di colore nascosti sotto. Il pesca, il verde giungla, l'indaco. Le canzoni scritte con il pennarello blu accanto alla finestra.
Ogni cosa è stata ricoperta. Strato su strato. Anche la grande montagna con il lago, che mia madre aveva dipinto sopra al mio letto. L'uomo sulla barca a remi è lì da qualche parte, respira ancora sotto le maioliche della cucina.
Lo stomaco mi si torce ogni volta che varco la soglia, non posso evitarlo. Ho tentato più volte di dare un senso a questo posto, ma è estremamente complicato per me aver cura di qualcosa che vorrei veder scomparire nel fumo di un incendio.
Sotto la mia finestra, appena dietro al cadavere del divano, tanti anni fa c'era un albero. In primavera sembrava un immenso bouquet di fiori, bianco e sferico. Io e mio fratello ci sedevamo a turno al centro dei suoi rami aspettando la sera. L'albero assorbiva la luce del tramonto emanando un chiarore irreale. Compiva questa magia silenziosa per pochi giorni, poi le foglie cominciavano a spuntare dai rami fino a ricoprirlo.
Quando lo hanno ucciso era estate esattamente come ora. I rami erano così lunghi che a momenti toccavano terra e le foglie li ricoprivano tutti. Quasi non fece rumore cadendo. Io e Nikita avevamo dodici anni e mio fratello soltanto otto. Guardammo la scena ammutoliti, nessuno di noi pianse. Quella giornata passò avvolta dal silenzio e non ne parlammo mai. 
Per tanti anni mi è sembrato di vedere il fantasma dell'albero ergersi verso il cielo.
Sulla finestra che da sul balcone ci sono i segni lasciati da Nikita qualche anno fa. Righe fatte con la chiave o con il cacciavite. Qualsiasi utensile utile a far leva ed aprire la finestra chiusa. Ho ancora chiaro in mente il rumore che faceva trafficando durante la notte, ma il più delle volte erano i cani del vicino a svegliarmi abbaiandogli. Quando il suo patrigno cominciò a star male, Nikita iniziò a presentarsi in casa mia alle ore più assurde della notte.
La prima volta che lo fece erano le tre del mattino e dormivo profondamente. Non mi accorsi dei rumori di ferraglia, né dell'abbaiare dei cani. Sentii soltanto il materasso inclinarsi leggermente quando si sedette accanto a me. Urlai ritrovandomi a terra per uno strano riflesso che mi fece buttare all'indietro. Mi spaventò talmente che non riuscii più a prendere sonno. Passammo la notte seduti in cucina.
In quei giorni viscidi che scivolavano via tutti uguali, Nikita non parlò mai del male che stava devastando la sua famiglia.
Per diversi mesi continuò così. Cominciai ad avere un sonno più leggero. Avevo paura che qualcuno potesse chiamare la polizia vedendolo armeggiare con la mia finestra nel cuore della notte. Quando sentivo i rumori mi alzavo di corsa per andare ad aprirgli, tornavo a letto senza parlare, mi giravo su un lato ed aspettavo che si infilasse sotto le coperte, che mi abbracciasse. Poi ci addormentavamo senza dire nulla.
Cercava il mio corpo, non come un uomo cerca il corpo di una donna, ma come una bestia infreddolita avida di calore.
Non so cosa facesse prima di presentarsi nel mio letto. Se passasse ore cercando di addormentarsi nella sua stanza senza riuscirci, o se vagasse in macchina fino a rischiare d'assopirsi al volante. Non gliel'ho mai domandato. La mattina seguente si scusava per il disturbo che mi dava e prometteva che non si sarebbe ripetuto di nuovo.
Un mese dopo gli regalai la copia delle chiavi di casa, dicendogli che poteva usarle quando voleva. Che poteva entrare ed uscire da casa mia esattamente come se fosse di sua proprietà.
Con l'introduzione delle chiavi cominciò a presentarsi più presto. Quando apriva la porta mi trovava sdraiata sul divano, in pigiama a guardare un film, oppure seduta a tavola a mangiare un dolce. Capitava che portasse una bottiglia di vino da bere dopo cena o una busta di cornetti per la colazione del giorno dopo.
Ogni angolo di questo squallido appartamento custodisce qualcosa. Negli anni è diventato una sorta di logoro baule nelle cui crepe si riesce a veder scintillare i resti di un tesoro saccheggiato.
Le prime notti nella casa di Nikita ho iniziato a fare un sogno, che sarebbe diventato ricorrente.
Ci sono io nella mia casa, tengo il mio diario tra le mani. Cerco in tutte le stanze un luogo in cui nasconderlo. In casa tutto è ricoperto da quei teli che si usano durante le ristrutturazioni e loro a loro volta sono coperti dalla polvere. Ci sono dei buchi nei muri, riesco a vedere le tubature che passano al loro interno, quando le fisso mi sembra di sentire il rumore dell'acqua scorrere. Nel diario c'è scritto qualcosa che non voglio sia letto da nessuno e qualcuno mi sta cercando per impadronirsene. Se lo trovassero scoprirebbero quello che ho fatto.
Abbandono il mio diario in una crepa nel muro, dietro le tubature. Immagino gli operai chiudere quell'apertura, seppellire quella parte di me nel cemento.
Ogni volta mi sveglio con il volto distorto dal pianto, singhiozzando.
Passo la mano sul muro, quella parte in cui in sogno seppellisco le mie confessioni. La mia è quasi una carezza, come se davvero sfiorassi una lapide.
Il tempo passa in uno strano modo tra queste mura, la luce sembra essersi attenuata e tutto si è tinto nelle tonalità fredde dell'ora blu.
Ho un sussulto quando, voltandomi, controluce vedo la sagoma di Nikita. Se ne sta poggiato alla ringhiera del balcone, immobile. Mi fissa come si fa con gli animali chiusi nelle gabbie degli zoo.
Nel momento in cui i nostri sguardi si incrociano si fa avanti, apre la portafinestra ed entra in casa. Dalla busta che tiene in mano si diffonde l'odore del pollo alla diavola della rosticceria all'angolo della strada. Non ho il tempo di dire nulla che subito esordisce:
«Sono quasi le nove e tu ancora non hai mangiato niente. Fai sempre così quando sei da sola.»
Sul tavolo da pranzo c'è un mucchio di roba, scatole di oggetti divisi con le logiche più disparate. Liberiamo il tavolo che dopo una passata di spugna è pronto per essere apparecchiato.
Il mio tavolo non è come quello di Nikita, rettangolare, bianco e luccicante, ma tutto il contrario: rotondo e di legno naturale. Sopra c'è qualche macchia di vino lasciata dai fondi di bottiglia ed i graffi fatti con il coltello affettando il pane. Mentre mangiamo mi fisso su di loro. Nikita mangia il suo pollo con coltello e forchetta, senza sporcarsi e ciò che non riesce a mangiare lo lascia attaccato alle ossa. Io ho le mani completamente unte dopo pochi bocconi, e quando ho finito la mia parte ripulisco quello che ha lasciato nel piatto.
«Più o meno è come avere un cane», mi dice ridendo.
Lo scimmiotto facendo una voce idiota.
Non mi sono accorta di aver fame finché non ho sentito l'odore del cibo. Mi succede tutte le volte, perdo completamente la cognizione del tempo, restando senza mangiare fino a sentire le mani che formicolano e la testa che gira.
«Che stavi facendo quando sono arrivato? Avevi la mano sul muro, sembrava quasi che lo accarezzassi.»
«Sogno sempre di averci nascosto qualcosa.»
«Nel muro?»
«Sì, nel muro. Durante la ristrutturazione, quando gli operai hanno rifatto le tubature. Il sogno è ambientato in quel periodo.»
«E cosa ci avresti nascosto?»
«Il mio diario.»
«Tu credi ci sia davvero un diario lì dentro, nel muro? Un diario scritto da te?»
«No che non lo credo. Cioè so che non è così, ma per una parte di me è come se lo fosse.»
«E hai pensato di rompere di nuovo il muro per vedere se è vero?»
«Sì, mi capita di pensarci quando faccio quel sogno, quando mi sveglio vorrei mettermi a scavare nella parete, ma poi non lo faccio.»
«Perché no?»
«Perché penso che se lo facessi sarei pazza.»
«Resistere alla tentazione di fare un buco nel muro ti rende una persona normale invece?»
La sua domanda mi scivola addosso come una mano sulla grattugia.
La stanza è avvolta nella luce gialla della lampadina a incandescenza, ancora da cambiare. Sono così stanca che la testa di Nikita al centro del mio campo visivo appare enorme e faccio una fatica immensa a metterla a fuoco.
Chiudo un attimo gli occhi e quando li riapro non è più seduto accanto a me. Come i gatti non fa alcun rumore muovendosi.
Guarda con attenzione nello sportello degli attrezzi sotto al lavello.
«Che cerchi?»
«Qualcosa per fare un buco nel muro.»
«A quest'ora? Vuoi che ci mandino la polizia?»
«Allora lo farò domattina.»
Non provo nemmeno a dissuaderlo. Avrei la stessa possibilità di riuscita se provassi ad addomesticare una lucertola, io che non ho mai avuto neppure un cane.
Ci ritroviamo sul letto.
Non dormiamo assieme in questa casa da tanto tempo. Nikita non veniva qui da quando sua madre ha comprato l'appartamento.
«Fa meno caldo in questa casa, non ti pare?»
Lo dico come se mi avesse chiesto cosa ci faccio qui, perché continuo a tornarci una volta la settimana, come se ci fossero piante da innaffiare o animali da nutrire.
«Non credo, ho fatto montare i condizionatori oggi pomeriggio. Ero passato apposta per dirtelo.»
«Quanti ne hai fatti montare?»
«Quattro. Il tecnico ha detto che altrimenti la casa non avrebbe avuto una temperatura uniforme.»
«Bene.»
«Volevo passare a prenderti e tornare a dormire lì, così li avremmo provati, però per stasera sarà meglio restare, così domattina potremo fare quel buco nel muro e controllare cosa c'è dentro.»
«Ma non c'è niente dentro.»
«Sì, lo so.»
Comincio a ridere. Una risata rumorosa di quelle che si fanno con la bocca aperta e la testa che non riesce a rimanere dritta. Mi chiudo la bocca con le mani. Immagino noi due armati di piccone a frugare all'interno del muro, ovviamente vuoto. Quando incrocio lo sguardo di Nikita mi accorgo che anche lui si trattiene appena, poi si lascia andare e finiamo raggomitolati sul letto a contorcerci dalle risate. Quasi mi manca il respiro. Boccheggio.
Alla fine siamo stremati, come dopo una corsa, come se avessimo davvero preso il muro a colpi di piccone aprendo un varco al suo interno.
Ci resta addosso quel respiro pesante per un po', lo stesso che resta dopo l'orgasmo.
In momenti come questo mi capita di immaginare come sarebbe se io e lui fossimo una coppia. Una coppia convenzionale, di quelle che vanno a cena fuori e poi fanno l'amore.
Ho immaginato per noi migliaia di relazioni diverse.
Di fare l'amore in migliaia di modi e di luoghi diversi. Nel bagno bianco pieno di luce o sul tavolo rovinato della mia cucina, in macchina mentre torniamo a casa.
Non so che tipo di coppia potremo mai essere nella realtà, né se mai lo saremo. Oppure se in qualche modo già lo siamo, ignorandolo completamente.
Da quando ci siamo conosciuti non abbiamo mai passato più di un paio di giorni l'uno lontano dall'altra. Non so quante coppie nel mondo possano vantare un simile record.

Mimesi (Bianco caldo)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora