Fine

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È passata l'estate e così l'autunno. L'inverno e la primavera. Ed altri mesi ancora. Per le strade l'odore di un'altra stagione calda, ormai agli sgoccioli. Sembra di vedere il verde delle foglie arrendersi, tendere al giallo. Chissà la fatica che fanno quei rami a tenerle, chissà qual è il peso del tempo passato. Il corrispettivo in grammi del vissuto di una foglia.

Ho sentito il mio corpo leggero, quando ho lasciato che tutto cadesse. Ora, affacciata al balcone, sento d'avere l'anima spoglia, senza zavorre. Se lasciassi il capo andare in avanti, oltre la ringhiera, forse resterei distesa a mezz'aria, perfettamente in equilibrio nel mio miracolo. Respiro piano, è come se l'aria mi riempisse tutta, il vento leggero potrebbe alzarmi da terra. Non opporrei resistenza.

Il sole dei mesi estivi ha schiarito i miei capelli e reso la mia pelle dorata. In me si sono attenuati i contrasti, lentamente. Passando i giorni da sola ho cominciato a riconoscere me stessa, al di là della figura riflessa nello specchio. Adesso riesco a scorgere da lontano quella ragazza fragile che marciava sotto al sole, più di un anno fa, la stessa che si tagliava le mani, frugando nel buco nero che aveva aperto nel muro. Vorrei abbracciare la me stessa di allora e sussurrarle all'orecchio parole lievi. Dirle che sopravvivrà. A Rebecca, e Nikita. Agli uragani che si abbatteranno ogni giorno sui suoi capelli. Alla ferocia degli anni.

A tutto il dolore del mondo.

Quel giorno non potevo sapere che li avrei guardati negli occhi per l'ultima volta, eppure è successo. Rebecca ha portato via con sé il male che le avevamo fatto. L'ho immaginata adagiarlo in un vaso e seppellirlo. Quasi fosse l'aborto di un fiore, un sentimento d'amore nato deforme e senza il respiro. Un essere orrendo che avevamo tenuto in un grembo congiunto. Avrei voluto invocare il perdono dei suoi occhi orientali. 

Sapevo che non sarebbe tornata, eppure ho sperato per un tempo lunghissimo di vederla distesa al mio fianco, o abbracciata a Samuele, nella penombra di una serata estiva. Ho sperato di rivederne le labbra. Di udirne le parole ed i silenzi. Vederla semplicemente passeggiare per la strada, affacciarsi ad un balcone. Rivederla soltanto. Saperla felice, in un qualsiasi universo. Invece ho visto suo padre, con le manette ai polsi, mentre lo portavano via. Era il TG dell'ora di pranzo. 

E sua madre l'ho sentita urlare, quattro settimane dopo, quando sono tornati per lei. Ancora ho sul fondo delle pupille l'immagine di Margherita mentre cerca di fuggire. Chissà se è riuscita a nascondersi, a sfuggire al disastro. A mettersi in salvo. Se c'è Rebecca con lei. Se disegna ancora quegli abiti, e sua sorella ancora li indossa.

Se la nostra innocenza è rimasta, insieme ai nostri sedici anni. Distesa sul prato, o nel cielo. Nell'odore dei fuochi d'artificio.

Nonostante ne avessi desiderato ardentemente le pagine, e tutte le parole stampate sopra, come fossero droga da leccare con la lingua, non riuscivo ad avvicinarmi al libro che Nikita aveva lasciato quel giorno a casa mia. Per giorni l'ho lasciato sul tavolo, passandoci accanto, senza neppure toccarlo. Solamente una volta ne ho sfiorato la copertina, con le dita della mano destra, socchiudendo le palpebre. Scambiando quel gesto per un rituale magico, aspettandomi quasi che lui comparisse davanti ai miei occhi. E che tutto quel male lo ingoiasse la carta. Quando, alla fine dell'autunno, ho fatto ciò che Nikita mi ha chiesto, quella copertina era rivestita di polvere, opaca. Prima di leggere le parole che lui aveva scritto, ho ripulito il libro con un panno, con la dedizione e la cura che si hanno per una creatura innocente. Avevo fatto la cosa migliore. Aspettare aveva reso la mia schiena più forte, le ferite erano guarite. A ricordarmi quei giorni restava soltanto il mio sopracciglio, diviso a metà. Non c'era più traccia del sole sopra al mio corpo. Ero tornata bianca, come la Luna. Come Nikita.

La mia casa, irriconoscibile persino ai miei occhi, cominciava a prendere la forma delle mie esigenze e la mia vita a ruotare attorno al grande tavolo dello studio, ricavato nella stanza dei miei genitori. Lì dentro ho passato la maggior parte del tempo, lontana da lui. Ho disegnato i nostri corpi, mischiati. La nostra pelle sovrapposta. Le dissimilitudini che non siamo mai riusciti a smorzare. Farlo anestetizzava i miei sensi.

Anche ora, ogni volta che sento la sua mancanza torno a disegnare noi due. I nostri corpi, uno accanto all'altro. Vederli mi tranquillizza. Mi ripeto che esistiamo ancora, da qualche parte: nello spazio bidimensionale di un foglio di carta. Il nostro amore, così sottile che se lo sfiori con le dita ti taglia, come la lama di un rasoio. Eppure puoi strapparlo e gettarlo nel cestino. Annegarlo in un bicchiere d'acqua e guardarne il colore tingerla tutta. Ho mandato a Nikita lo stesso messaggio, ogni mese. Chiedendo altri giorni, ogni trenta ne chiedo degli altri. Giorni per capire, giorni per disegnare, giorni per essere forte.

Quel libro, che pensavo avrei divorato, l'ho letto lentamente. Ogni pagina con il terrore di esserne risucchiata, diventando una creatura che vive negli incubi. Ho creato un rifugio all'interno di me, un luogo in cui tutto ciò che non sapevo di lui potesse trovare spazio. Per farlo avevo bisogno di tempo. Dovevo contrarre qualcosa, tra il cuore e i polmoni, e lasciar entrare il dolore. Tenerlo lì, stretto. Addomesticarne i movimenti spasmodici e renderlo docile. Incapace di mordere. Ora, che vivo con un branco di lupi accovacciati tra le mie costole, posso dire di amare Nikita.

Posso uscire di casa, ed andare da lui.

Mimesi (Bianco caldo)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora