Il gatto Telemaco

186 15 18
                                    


Mi sveglio in un bagno di sudore. Seduta sul divano, la testa buttata di lato. Ho una sete tremenda. La pelle tira. Sembra potersi strappare ad ogni mio movimento. Ho ancora la febbre. Lo capisco dal dolore alle ossa. Dal fatto che ancora non mi accorgo del caldo che fa, nonostante il sole che c'è fuori da qui. Resto attonita con la mente che fa scorrere i pensieri di questa notte, gli incubi e i ricordi che mi sono passati attraverso.

Mando un messaggio a mio fratello, gli dico che se mi porta una pasticca di paracetamolo gli offro la colazione al bar sotto casa. Mi risponde di sì. Dopo la doccia indosso un vestito di cotone leggero, blu scuro con le maniche lunghe e la gonna che mi sfiora le caviglie. Lo aspetto di sotto, davanti al cancello. Quando lo vedo arrivare esco, lo precedo. Attraversiamo la strada e andiamo verso destra, al bar davanti all'incrocio delle capre. Rinnovano il bancone ogni anno. Lavori costosissimi e di pessimo gusto, tutte le volte. Quest'anno è di un nero satinato orrendo, in contrasto con le pareti bianco perla, accecanti e pacchiane. I divanetti di finta pelle, di un rosso terribile completano l'opera. È proprio lì che ci sediamo. Ci portano al tavolo cornetto e cappuccino: tra i migliori che io abbia mai assaggiato.

Samuele mi racconta della benedizione che è stata Bologna. Di come avere un posto totalmente suo, lontano da tutti, gli abbia cambiato l'esistenza. Me lo dice ogni volta, sempre con il sorriso cucito sulle labbra.

Quando gli chiedo se ha una ragazza, una con cui esce, abbassa gli occhi e arrossisce. Sorseggia il cappuccino, poi mi dice:

«Quelli come noi prima di stare con qualcuno dovrebbero imparare a star bene da soli. Io ancora non lo so se sto bene davvero...»

Poi mi dice che però c'è una ragazza, una che gli piace. È una sua amica, ma lei sta già con un altro. È una più grande che frequenta la specialistica.

Insieme al cappuccino mando giù la pasticca.

«Tu invece come stai?»

«Non lo so, è tutto un gran casino. Devo fare ordine in tante cose.»

Gli racconto di Nikita, del nostro rapporto bloccato. Di come Rebecca si sia presa invece una parte di me. Di come tutto si sia complicato. Samuele comincia a parlarmi, mi guarda negli occhi con un po' d'imbarazzo, poi guarda il tavolo. Giocherella con la bustina di zucchero che tiene in mano. Mentre parla vedo il bambino che era e l'uomo che sta diventando. Il suo discorso è maturo e perfettamente coerente. Mi dice di chiedermi cos'è che voglio, senza pensare a nessun'altro oltre a me. 

Come se per una volta nella mia vita avessi il potere di decidere su ogni più piccola cosa. Come se potessi anche scegliere chi vive e chi muore all'interno della mia storia. Come se fossi Dio. Mi chiede di farlo senza pensare ai tabù che ci impongono, a quello che ci vendono per giusto e sbagliato. 

Mi chiede di essere onesta e imparziale verso me stessa, verso i miei comportamenti, di vedermi per quella che sono e di chiedermi se posso accettare la persona che vedo. Se posso convivere con i miei mostri, perché altrimenti dovrò trovare il modo di ammaestrarli o scacciarli. Perché fingere che non esistano e chiuderli nella mia testa farà solo in modo che quelli, un giorno, si mettano a scavare cercando l'uscita, facendo brandelli di me. 

Si mette a parlare di nostra madre, di come abbia represso se stessa per anni. Per il nostro bene, per amor nostro. Alla fine arrivando quasi ad odiarci, ad abbandonarci. Non ha resistito.

Samuele mi guarda e sorride con un velo di tristezza negli occhi.

«Come poteva continuare ad amarci? Le avevamo tolto qualsiasi cosa. Era così stanca che quando la sera rientrava non riusciva nemmeno a leggersi un libro.»

Mimesi (Bianco caldo)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora