Flashback -Vittima, o carnefice-

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Lascio i sacchi della spazzatura accanto agli altri, a mia nonna che mi disprezza, perché getto le cose del figlio, come fossero pezzi di lui. Parti del corpo. Come potesse tornare ed usarle di nuovo. Invece anche lui ci ha lasciati, come mia madre. Se n'è andato per sempre. Non voleva tornare mai più. Ho aspettato fin troppo. Le ho tenute per ben dieci anni, eppure non è mai tornato a indossare i suoi maglioni, non ha più fatto il nodo alla cravatta.

Mio padre ha scelto di morire.

Quando l'ha fatto non si è chiesto di noi. Di quello che avremmo fatto, completamente soli. Non si è domandato neppure, chi, tra me e mio fratello, avrebbe ritrovato il suo corpo. Quello che avremmo pensato del buco che si era aperto al centro della testa. C'era solo lui, il suo dolore piazzato perfettamente al centro. Lo aveva mangiato vivo. Non c'era più, da tanto, mio padre. Era un'ombra sul divano. Una sagoma sdraiata nel letto. Senza espressione.

È impossibile sentire la mancanza di qualcuno che in fondo non c'è mai stato.

Torno di sopra, pulisco il pavimento pieno di polvere e cartacce. Le scatole che restano le metto tutte a ridosso del muro, nella stanza dei miei. Mi dico che basta per oggi. Il sole è basso, la sua luce sembra incendiare l'appartamento. Ogni cosa è dorata.

Mentre spingo con il piede uno scatolone, pieno di vestiti vecchi, vedo spuntare una maglietta che riconosco immediatamente. L'ho conservata con cura per tanti anni. Riempio d'acqua e sapone il lavandino del bagno e mi metto a lavarla.

2001. Quinta elementare. Tutti nella nostra classe hanno paura di Nikita, come fosse un vampiro o un altro mostro dai denti affilati. Io credo che lui sia perfetto. Rimango a guardarlo per tutto il tempo quando siamo a scuola. Lui si siede sempre accanto a me e io sono felice tutte le volte. È l'ora della merenda, ci sediamo in giardino, gli do metà della pizza che mi ha dato mia madre, lui divide con me la sua torta di mele. Lo facciamo tutte le volte, tranne quando sua madre gli fa portare la mela. A me la mela piace soltanto dentro la torta, mi da fastidio quando è cruda e i pezzetti di buccia si infilano tra i denti, ogni tanto mi sembra di strozzarmi quando li mando giù.

«Chi te lo ha fatto questo?»

Mi chiede Nikita, indicando un grosso livido che ho sul ginocchio.

«È stato mio fratello.»

«È più grande tuo fratello?»

«No ha sei anni, mi da sempre dei calci.»

«E perché tu ti fai fare questa cosa? Se è più piccolo, picchialo.»

«Io ci ho provato a difendermi...»

«Ma tu non devi difenderti. Devi picchiarlo per prima. Mentre sta facendo qualcosa. Devi farlo in un momento in cui lui non se lo aspetta.»

«Ma poi lui mi picchierà di nuovo.»

«Se lo colpisci nelle palle no, si butterà per terra e comincerà ad urlare. Quando lo farà tu digli che se ti tocca ancora, tu gli farai la stessa cosa mentre sta dormendo.»

«Ho paura di fare questa cosa...»

«Se non lo fai lui continuerà a picchiarti.»

Nikita invece non ha paura di nulla, e da quando si siede vicino a me, nessuno mi fa più degli scherzi.

«È carina questa maglietta.»

«A me fa schifo. Mia madre è convinta che io debba mettermi questa roba. La trovo orrenda.»

«Ha un bel colore invece.»

«Nikita questa maglietta è verde pisello. Fa schifo. Fa schifo a tutti. Se mia madre non mi comprasse dei vestiti da deficiente avrei una vita migliore.»

«Dalla a me, mettiti la mia.»

Seduto sulla panca di cemento Nikita comincia a spogliarsi. Poi resta fermo a fissarmi, aspettando che io faccia altrettanto.

«Non voglio che mi vedi nuda, voltati.»

Quando si gira dall'altra parte, mi tolgo la maglietta di fretta e indosso quella che Nikita si è appena tolto. Poi lui infila la mia.

«Quella maglietta fa schifo pure addosso a te.»

Alzo il collo della T-shirt che Nikita mi ha dato e lo annuso. Odora di talco e bagnoschiuma. D'ammorbidente, anche.

Mi piace il suo odore.

Nikita si alza in piedi, mi fa segno di seguirlo. Gli vado dietro.

«Adesso guarda che succede.»

Camminiamo verso il piazzale, dove un gruppo di ragazzi della nostra classe sta giocando a pallone.

«Che vuoi fare?»

«Tu guarda...»

Nikita si mette a gridare il nome di un nostro compagno. «Davide!» «Davide!» Fin quando lui non si allontana dagli altri per dargli retta.

«Che c'è?»

«Non è bella questa maglietta verde?»

Davide annuisce, come me non capisce il perché della domanda che Nikita gli ha fatto, però lo asseconda. Nikita continua. «Allora perché non facciamo a cambio? Dammi la tua!»

Davide senza dire una parola si toglie la maglia di dosso e la lancia a Nikita. Lui si sfila quella che gli ho appena dato e completa lo scambio.

«La palla vi serve ancora?»

«No, te la porto subito.»

«No, ci ho ripensato, non mi va di giocarci.»

Nikita mi fa un cenno con la testa e ce ne andiamo.

Davide passerà la giornata con la mia orrenda maglietta addosso.

Mentre camminiamo Nikita ride stiracchiandosi. Io non avrei mai indossato la maglietta di Davide, né quella di chiunque altro.

«Quando sono gli altri che hanno paura di te va bene, ma se loro non hanno paura, allora sei tu che devi avere paura di loro, e questo non va bene. Hai capito perché devi picchiare tuo fratello?»

Quando si volta a guardarmi, annuisco.

«Però tu non hai paura di me e non mi hai nemmeno picchiata.»

«Perché noi siamo un'altra cosa.»

«Che vuoi dire?»

«Che non siamo merda come loro.»

«Il primo giorno di scuola, l'anno scorso, quando hai mandato quel ragazzino all'ospedale, l'hai fatto per spaventarli?»

«No, l'ho fatto perché mi stava facendo schifo.»

«Hai fatto bene a picchiarlo. È una merda. Una volta mi ha rovesciato in testa una bottiglietta di coca-cola. Quel giorno, mentre era per terra gli ho schiacciato una mano col piede, ci sono passata sopra con tutto il mio peso.»

Nikita mi sorride. Mi chiede dei miei genitori. Vuole sapere se mi trattano bene, se mia madre e mio padre mi picchiano, se mi toccano. Scuoto la testa. Gli dico di no, che mi vogliono bene.

«Sono due genitori normali...»

«Ottavia, se una persona più forte di te ti facesse qualcosa di brutto, qualcosa di molto brutto, tu devi venirmelo a dire. Se è una persona che non puoi sistemare da sola.»

«In che senso? Che intendi con sistemare?»

«Se qualcuno ti facesse qualcosa di brutto, io lo ucciderei, per evitare che lo faccia di nuovo.»

«Nessuno mi fa niente di brutto, davvero. Sono strani ma mi vogliono bene.»

Mimesi (Bianco caldo)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora