Febbre

175 16 18
                                    


Non ho mai camminato tanto quanto oggi. Sulla via di casa il sole è basso, mi fissa negli occhi, sfidandomi. I miei piedi sono pieni di vesciche. Lungo la strada ho slacciato i cinturini dei sandali e per un po' è andata meglio, poi le stringhe della fascia davanti hanno cominciato a darmi il tormento. Non ho il coraggio di guardare in basso. Quando arrivo all'incrocio vedo una capretta brucare l'erba sul ciglio della strada. Mi ruba un sorriso. Faccio fatica persino a girare la chiave nella serratura del cancello.

«Tata!»

In alto, sulla terrazza di mia nonna è affacciato Samuele. Lo saluto con la mano, sorridendo.

«Sali, Tata, ti preparo il caffè!»

Non vedo Samuele da almeno sei mesi. Resto ad indugiare davanti alle scale. Non voglio vedere mia nonna. Sto per chiedergli di scendere da me, lui se ne accorge e aggiunge:

«La strega è andata a messa!»

Samuele ha ventuno anni e frequenta la facoltà di psicologia. Poteva restare a studiare a Roma, ma ha preso la palla al balzo e si è trasferito a Bologna. L'avrei fatto anch'io se avessi vissuto fino ai diciott'anni accanto a mia nonna. Se fossi stata meno concentrata su me stessa avrei potuto evitarglielo, avrei potuto tenerlo con me, ma forse lei non me l'avrebbe permesso.

Quando da piccola salivo queste scale per andare da lei, ero terrorizzata all'idea che si trasformasse davanti ai miei occhi. Temevo le spuntassero delle orecchie da lupo attraverso i capelli tinti di biondo. Non ho mai creduto che fosse completamente umana. Quando mi chiedevano d'andare a chiederle il sale o lo zucchero perché rimasti senza, facevo un gran respiro e prendevo coraggio. Cercavo di restare con lei il tempo indispensabile. Quando apriva la porta guardavo con timore i suoi occhi enormi, amplificati dalle lenti spesse degli occhiali, mi facevo dare quello che mi avevano chiesto e poi scendevo le scale di corsa. Tiravo un sospiro di sollievo per essere sopravvissuta di nuovo, non appena rientravo in casa.

Samuele ha lasciato la porta accostata. Lo trovo in cucina che armeggia con la caffettiera. Quando si accorge di me mi si getta letteralmente addosso, stringendomi forte. Mi toglie il fiato. Poi si allontana, mi studia, storce la bocca.

«Ma che hai fatto, la guerra? Sei tutta rossa e puzzi anche un po'.»

«Che accoglienza... Potresti lavorare in albergo, ti assumerebbero subito.»

Gli racconto della traversata che ho fatto sotto al sole, quasi quindici chilometri, senza mai fermarmi, passando per casa di nostra madre. Gli racconto di lei che mi chiama, di come me ne vado senza voltarmi.

«Potevi farti accompagnare a casa, le avresti dato un motivo per sentirsi utile. Una volta nella vita dovrebbero provare tutti un'emozione simile, persino lei!»

Ci mettiamo a ridere.

Samuele versa il caffè e mi porge una tazzina.

«Se ti fai una doccia e ti metti qualcosa di decente ti porto fuori a cena. Sarai il mio lampione personale stasera, cotta come sei potresti brillare al buio.»

«Non ce la faccio, non mangio da questa mattina.»

Mio fratello tira fuori dal frigo un vassoio pieno di dolci. Identico a quello che prendevamo la domenica mattina.

Se avessi saputo che mi sarebbe rimasto soltanto lui, se mi avessero detto tutto quello che avremmo passato, almeno io sarei stata più gentile con lui.

La cosa che più ci discolpa è il non essere coscienti del peso delle nostre azioni. Dell'effetto che avranno sulle vite degli altri.

Ho passato l'infanzia ad odiare Samuele, per come mia madre si occupava di lui. Sapere che sarebbe rimasto orfano all'età di undici anni, mi avrebbe fatto vedere ogni cosa diversamente.

Mimesi (Bianco caldo)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora