Flashback -Devi andare a scuola-

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Settembre 1997. 

Le mie urla risuonano per le scale del palazzo. Resto aggrappata al portone, mio padre mi tira a sé. Grido, piango. Lo imploro. Mia madre si è messa a piangere solamente all'idea di lasciarmi, di non poter venire a scuola con me. Non voglio che mi portino via da qui, lontana da lei. Papà continua a ripetere che devo andare a scuola, come gli altri bambini. Ho sei anni. Non sono andata all'asilo, mai avuto un'amica che non fosse mia madre. Non mi piace l'odore degli altri, mi sembrano sporchi. 

Quando papà riesce a mettermi in macchina non ho più la voce. Sembro in preda ad una crisi asmatica. È una cosa che faccio quando mi costringono a fare quello che non voglio, mi fingo malata, morente. Ne invoco la pena e le cure. Mio padre resta impassibile, immobile, neppure mi guarda. Continuo più forte. Alla fine mi arrendo. Me ne sto buona, sfinita sul mio sedile. Mi stanno tradendo, mi portano via. Chissà se verranno mai a riprendermi. Mia madre mi aveva detto "Non ti lascerò mai". 

È rimasta a casa insieme a Samuele. Mi ha ripetuto "Stai zitta, altrimenti lo svegli." Poi lui si è svegliato, ha cominciato ad urlare e lei se ne è andata, è corsa da lui. Da quando è nato non c'è più tempo per noi. Quando mio padre ferma l'auto davanti al cancello il mio cuore esplode. Vomito la colazione appena scendo dalla macchina. Non mi scompongo, non cerco più aiuto, non voglio più niente. 

Mi pulisco la bocca con un tovagliolo e cammino, senza parlare, senza più oppormi. È una resa. Saliamo una rampa di scale che non sembra aver fine, superiamo il porticato, l'ingresso. Mio padre scambia qualche parola con una signora in camice blu davanti alla porta. Mi chiedo cosa ci faccia un dottore qui dentro e perché abbia in mano una scopa. Questo posto ha lo stesso colore degli ospedali, ma un odore diverso. Mio padre mi lascia davanti a una porta.

«Questa è la tua maestra.» Mi dice, e va via.

La paura, il terrore. Bambini che ridono, altri si rincorrono tra i banchi. Resto immobile, trovo con gli occhi un posto lontano da tutti, una sedia in un angolo, vicino all'appendiabiti. Mi siedo lì, appoggio per terra lo zaino, tengo addosso l'impermeabile e aspetto che tornino a prendermi. La donna a cui mi ha affidata mio padre entra in classe, dalla bocca le esce un urlo. Ci dice di sederci, ma io lo sono già. Quella donna, la maestra, mi guarda in un modo che non capisco. Si avvicina, mi si piazza proprio davanti, allunga la mano verso di me.

«Coraggio, vieni.»

Mi alzo ma non le do la mano. Non la conosco. La maestra mi fa sedere su un'altra sedia, una con il banco davanti. Mi chiede di togliermi l'impermeabile ed appenderlo dove ci sono quelli degli altri. Non voglio che i miei vestiti stiano vicino ai loro. Le dico di no, che voglio tenerlo. Lei non insiste. Porto le mani sul banco, incrocio le braccia. Fuori ci sono nuvole che corrono veloci attraversando il cielo. Spero che piova fortissimo, così quando ci faranno uscire potrò sentire il rumore dell'acqua che cade sul mio cappuccio di plastica. 

Poggio la testa sul banco e chiudo gli occhi, creo la notte dentro di me, un posto dove non possa trovarmi nessuno di loro. Resto in silenzio per tutto il tempo. Sono una statua di marmo, completamente bloccata. Respiro pianissimo affinché non mi sentano. Se non parlo, nessuno di loro mi noterà. Se mi copro il viso, finiranno per non ricordarsi di me. Devo aspettare cinque ore. Me lo ha detto la mamma, soltanto cinque ore. Poi tornano a prendermi. Me lo hanno promesso.

Mimesi (Bianco caldo)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora