Flashback -Due madri-

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Maggio 2005, ho quattordici anni. Tutte le ragazze della mia classe ostentano una femminilità che a me manca. Ho il terrore di diventare come loro. Mia madre ha deciso che è assurdo che io ancora non abbia avuto le mestruazioni. Lei a dieci anni le aveva già avute, mia nonna lo stesso. Il mio corpo è bloccato in un limbo, dove vorrei che restasse. Ho imparato ad amare le mie forme. Le spalle plasmate dal nuoto, il fisico asciutto. 

Non voglio diventare nient'altro che questo. Sono nella mia stanza, quando mia madre entra e mi vede. Mi guarda e capisco che per lei sono un albero cresciuto al contrario, con le radici per aria, la chioma ficcata nella terra, invisibile a tutti. Lo vedo da come mi osserva. Non s'aspettava venissi fuori così quando mi ha partorita. Il seme che ha piantato si è rigirato nella terra. Mi sto vestendo, ho infilato i pantaloni neri della tuta e sto cercando una maglietta. Mi fissa, cerca le parole da far uscire. Gli occhi le si fermano sul mio seno, che non c'è. Sembra fissare l'orizzonte in attesa di un tramonto che non arriva.

«Ho preso appuntamento dal medico.»

«Sei malata?»

«È per te, voglio che ti veda un endocrinologo. Non stai crescendo.»

«Sono alta come le altre della mia classe, più di alcune di loro addirittura.»

«Non è questo che intendo.»

«E cosa?»

«Non hai sviluppato.»

«Magari non succederà...»

«Non vuoi essere una donna?»

«Mi sta bene essere così.»

Sulla mia scrivania un flacone di lozione solare. Protezione totale. Ricopro le braccia, il mio viso, ogni più piccolo angolo del mio corpo che verrà esposto alla luce del sole. Infilo una canottiera da basket, maschile. Nera e grigia, con le scritte bianche ricamate sopra. Mi sta leggermente più larga di come sta addosso a Nikita.

Mia madre si avvicina.

«È per colpa di questa roba se sembri anemica. Sei pallida come un fantasma.»

«Mi piace avere la pelle bianca. E poi lo sanno tutti che il sole fa venire i tumori, me l'hai detto anche tu una volta.»

«Veramente vuoi uscire con quella addosso?»

Indica la mia canottiera.

«Si, c'è qualcosa che non va anche in questo?»

«È larga, basta che ti chini e ti si vede tutto, fino all'ombelico.»

Tolgo la canottiera e le vado di fronte, con il mento alto e lo sguardo di sfida. Con le mani mi indico il torace, le costole. I capezzoli bidimensionali disegnati sopra.

«Il problema è che mi si veda tutto, o che non mi si veda niente?»

«Stai diventando ridicola, Ottavia.»

«E tu stai diventando una stronza. Vai da tuo figlio, quello normale è nell'altra stanza.»

La spingo, mi da uno schiaffo.

«Il mese prossimo abbiamo appuntamento dal medico.»

Mi infilo di nuovo la mia canottiera. Abbandono mia madre in quella stanza, attraverso il piccolo corridoio, la casa sembra implodere con me dentro. Ho l'impressione d'uscire appena prima che mi schiacci.

Fuori da casa mia è primavera, all'interno non so dire che stagione stiamo vivendo. I miei genitori parlano di sogni che non si realizzano. Le loro speranze restano sospese nell'aria e poi scompaiono, spariscono nel soffitto. Non parlano più di quelle che non si sono avverate. Diventano gravidanze difficili sfociate in aborti spontanei, se non se ne parla è come se non fossero mai esistite.

Mia madre ha trentadue anni. Vorrebbe iscriversi all'università. I soldi non sono mai abbastanza, la vedo muoversi come un'acrobata per riuscire a mettere via quel che serve, ma ogni volta le prosciugano i sogni. Compare una multa che non è stata pagata, una tassa che non si aspetta, una bolletta troppo salata. Però di questo non smette mai di parlare. Credo sia l'unica cosa in cui crede davvero. Il giorno in cui smetterà di farlo non mi stupirei se morisse.

Attraverso a piedi il quartiere. È il primo di maggio. Chi non è andato a fare il picnic al parco è in giardino che armeggia con il fuoco del barbecue. Attraverso i cancelli e le ringhiere, che delimitano le case degli altri, vedo famiglie felici scherzare all'aperto.

La verità è che non posso fare a meno di odiarli.

Immagino la morte dei miei genitori. Se scomparissero entrambi potrei rintanarmi in casa di Nikita, per sempre. Vivere in quella casa meravigliosa, nella sua primavera perenne.

Avrei la madre e il fratello che ho scelto.

Apro il cancelletto della villa con le chiavi che mi ha dato Natacha. Le sue rose sono fiorite tutte. L'edera ricopre la parte destra della facciata, fino al balcone del primo piano. Il glicine sta perdendo i suoi fiori, che cadendo sporcano di quel lilla chiaro il pavimento di legno sotto al pergolato.

Mia madre non sa che ho le chiavi di questa casa. Non sa che tutto quello che indosso lo ha comprato Natacha. Crede che Nikita mi faccia la corte comprandomi dei regali, e che mia nonna mi dia dei soldi di tanto in tanto, come fa con Samuele. Non si accorge del fastidio che prova la vecchia a guardarmi, semplicemente perché il mio viso è quasi identico al suo. Sono la copia minuta del mostro che le ha rubato suo figlio. Mia nonna non si accorge della pazza che è.

In cucina c'è odore di vaniglia. Natacha indossa un grembiule bianco, in forno c'è la torta e sul tavolo un recipiente pieno di panna montata.

«Buongiorno pulcino.»

«Ciao mamma Tacha.»

«Sei carina con quella maglietta, sembri un minuscolo giocatore di basket.»

«Peccato che non ci abbia mai giocato a basket.»

«Non è certo il tempo che vi manca a voi due, è la voglia. State sempre a leggere fumetti e giocare ai videogiochi.»

«Ma andiamo a nuoto.» Le dico intingendo un biscotto nella panna montata.

«Se non faceste neppure quello, vi ritroverei sciolti sul divano, senza nemmeno un muscolo!»

Mangio il mio biscotto seduta sullo sgabello davanti a lei. I suoi capelli biondi, legati in una treccia, le lasciano scoperto il viso.

«Mia madre vuole portarmi da un medico.»

«Perché, non stai bene?»

«È perché non ho il ciclo.»

«Ti arriverà.»

«E se io non volessi?»

«Si in effetti l'idea di sanguinare una volta al mese non è così allettante...»

«Non è solo quello. È tutto. Voglio rimanere così come sono.»

«Il corpo cambia, è una cosa normale. Ma la natura non è così cattiva, ti darà il tempo di abituarti...»

«E se non mi ci abituassi ad essere una femmina?»

«Ma tu sei già una femmina.»

«Intendo una come le altre, con le tette e tutto il resto.»

«Io ti prometto che se non ti ci dovessi abituare, ne parleremo, e troveremo un modo, e poi chi ha detto che debba crescerti il seno? Ci sono ragazze piatte come tavole da surf.»

Parlare con Natacha mi calma. Risucchia l'ansia che ho addosso. La sua bocca riesce a creare un futuro in cui non sono infelice. Nei suoi racconti si piazza sempre al mio fianco. Mia madre fa l'esatto contrario. Me la ritrovo di fronte, ogni volta, con la spada sguainata. 

Mimesi (Bianco caldo)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora