Non so se a riscuotermi è il rumore della pioggia che tamburella sul marciapiede o qualcos'altro. Ho la testa che pulsa e gli occhi che bruciano. Davanti a me c'è soltanto un vuoto colmato dall'acqua piovana che, come un fiume sinuoso di montagna, scorre con prepotenza e velocità accanto alle case che costeggiano la strada. Faccio ancora fatica a respirare, come se qualcuno mi stesse soffocando con una lenza e mi stesse piantando un ago da pesca nel collo.
Sento ancora il suo volto e le sue lacrime, dei frammenti minuti e acuminati come schegge, conficcati in profondità nel cervello. Vorrei poterli strappare via, perché me ne sento invaso, ma so di non poterci riuscire. Cancello le lacrime che ho sul volto con la punta delle dita, come a volermi liberare dal grumo di dolore provato, e giro i tacchi per tornare a casa.
Ogni passo che faccio è accompagnato da un respiro affannoso che mi fa contrarre il torace. Trovo difficile orchestrare ogni movimento del corpo e man mano che procedo sento le mie gambe cedere sotto il suo peso. Nonostante ciò, non crollo. Proseguo diritto fino a raggiungere un cancello di ferro battuto, invecchiato dalle intemperie e arrugginito, che rappresenta l'ingresso del Piccolo Parco Nazionale del Dipartimento, quindi svolto a destra ripercorrendo la strada d'andata. Non ci metto molto a raggiungere casa mia. In dieci minuti sono già sui gradini del portico che mi conduce all'ingresso dell'abitacolo e in altri dieci secondi mi ritrovo davanti al portone di legno. Cerco il mazzo di chiavi nelle tasche dei pantaloni e quando lo tiro fuori per aprire la serratura, noto che la porta è socchiusa. Me ne ero dimenticato.
Fisso davanti a me l'anello d'ottone che fa da batacchio, un po' confuso e insospettito, quindi entro in casa e richiudo la serratura dall'interno, mettendo anche il chiavistello per sicurezza. Dentro è completamente buio. Riesco a percorre l'androne grazie alla fioca luce artificiale del cordless e raggiungo il bagno di sopra senza staccare le mani dalla pareti. Nonostante l'ora, decido di togliermi i vestiti e di buttarmi sotto il getto caldo della doccia. Una volta sotto, lascio che l'acqua si impossessi del mio corpo. La sento stuzzicarmi la schiena, spingersi oltre il polpaccio e lo stinco, fino ad arrivare al calcagno e alle dita dei piedi. So che non potrei concedermi tutto questo. Per quanto riguarda gli sprechi d'acqua e di cibo, le regole del nostro Dipartimento sono infatti molto rigide; nonostante ciò, sono abituato a trasgredire agli ordini quotidianamente.
Rimango nella cabina doccia per un bel po' di tempo, finché non mi stufo e decido di uscire. Chiuso il rubinetto, allungo la mano in cerca dell'accappatoio e una volta trovato lo avvolgo attorno al corpo e filo in camera mia a cambiarmi, non curante del disordine che ho lasciato. Dall'armadio di fronte al mio letto tiro fuori un paio di jeans, un maglione bianco e un cardigan azzurro - che metterò soltanto durante la cerimonia - e dalla cassettiera accanto alla finestra prelevo gli indumenti intimi. Quando ho finito di vestirmi, scopro di non avere la minima idea di come riempire il tempo. Dormire mi sembra un'opzione da escludere. Mi guardo un attimo intorno per trovare un passatempo, ma non vedo altro che una stanza tappezzata di scaffali alti fino al soffitto e gremiti di libri che ora non mi va di leggere.
Alla fine, mi ritrovo con la testa fradicia sul cuscino a guardare il soffitto, una piccola superficie di cedro che mi dà un senso quasi di soffocamento. Il ticchettio della pioggia che batte sulle persiane della finestra alla mia sinistra è ritmico - a differenza del mio respiro dai movimenti ineguali e irregolari -, così preciso da sembrare quasi innaturale. Mi alzo un attimo dal letto e mi avvicino alla finestra, più o meno a rallentatore. Vorrei poterla aprire, perché l'afa e il caldo in camera mia sono quasi insopportabili, ma sono costretto a rinunciarci. Così, mi limito a guardare le gocce che si inseguono sul vetro, sforzandomi di pensare ad altro che non sia la mia stanza.
D'improvviso, un piccolo bagliore attraversa la mia stanza e ho appena il tempo di girarmi per vedere una mano accarezzare lo stipite della porta cigolante. Mi siedo sulla sponda del letto aspettando che lei faccia lo stesso. Il suo giovane e fragile corpo è avvolto da un vestitino color pervinca che le arriva fino alle ginocchia, i capelli raccolti in due trecce e gli occhi celesti gremiti di sonno e di dolore. Alla sua vista, tutti i cattivi pensieri vengono sommersi dalla superficie basculante di un mare ignoto, come una nave che affonda in un abisso infinito. Lascio che la sua testa crolli sulla mia spalla e che il suo profumo particolare di corniolo invada la stanza.
«Va tutto bene, Zoe», le dico mentre le accarezzo le guancie fredde e pallide, prive di colore esattamente come tutto il resto del corpo.
«Non ti preoccupare, sorellina. Io ci sarò sempre».
Prendendola delicatamente in braccio, la faccio sdraiare accanto a me sul letto morbido senza dimenticare di rimboccarle le coperte e di raccontarle una storiella per tranquillizzarla.
«Immaginati tu e io sdraiati su un bel prato di montagna colorato di genziane e di anemoni splendenti. C'è un lago limpido davanti a noi, mosso leggermente da una brezza piacevole che ci accarezza il viso...».
*
Sento uno spiffero da sotto la porta di ingresso, la stessa che qualche ora prima mi ero scordato di chiudere a chiave. Zoe è sopra in camera che dorme, mentre io sono seduto su una poltrona accanto a un calorifero in ghisa che mi tiene caldo. Sono le cinque del mattino. Non faccio altro che pensare alla fatica che ho dovuto fare per attraversare un semplice corridoio che sembrava pavimentato di tapis roulant. Le paure erano come chiodi che mi tenevano ancorato allo stesso punto e, se non avessi avuto il coraggio di insistere, sono certo che mi avrebbero portato alla deriva. Per fare passare il tempo decido di farmi un caffè ma alla fine rimango a fissare la schiuma che rapprende sulle pareti della tazzina, assorto nei miei pensieri. A riportarmi alla realtà è il rumore di alcuni passi alle mie spalle che si avvicinano sempre di più. Senza nemmeno il bisogno di girarmi, percepisco il suo sguardo focalizzato sul mio profilo.
Mio padre ha un viso sereno, coronato da un ciuffo di capelli estremamente radi e castani, e sotto le sopracciglia due occhi celesti mi guardano sempre con un'espressione indecifrabile. Nonostante i lavori pesanti in miniera e un corpo non molto robusto, mio papà non si è mai lamentato di mialgia né di particolari dolori al corpo. Lui correrebbe sul greto di un fiume a piedi nudi per chilometri soltanto per me e Zoe. Per quanto mi voglia bene, però, faccio spesso fatica a guardarlo negli occhi: fiumi di discorsi e di ricordi del suo passato, affilati e crudeli, si conficcano al mio costato tutte le volte che cerco il suo sguardo. Non c'è un solo momento in cui non sia attivo un senso che acuisce le percezioni ordinarie del mio corpo in sua presenza. Con lui, ho sempre paura che possa succedere qualcosa di brutto.
Robert è già fuori dal portone di casa. Io potrei decidere di rimanere seduto sul divano a non fare nulla, invece mi alzo e lo seguo fino alla veranda, dove l'aria del mattino è fresca e dove il buio comincia a lasciare spazio alla luce del sole. Il senso del timore si infiltra in me come artrite, mi piega le ossa e mi costringe a fare resistenza. Nelle mie orecchie c'è solo il rugghio del vento che insieme al refrigerio dell'ombra mi dà quel poco di conforto di cui ho bisogno.
Mio padre ha quasi percorso l'intero vialetto di casa quando urlo il suo nome. Ed eccoli, i suoi occhi che brillano come gli alberi maestri delle barche lontane, all'orizzonte, con quelle iridi azzurre, fredde come il ghiaccio. Cerco di non abbassare lo sguardo mentre lo fisso, ma mi risulta difficile, molto. [...]
//La parte conclusiva del racconto è stata omessa volontariamente durante la trascrizione del capitolo dal documento word perché ancora da revisionare. Ciononostante, la scena "prelevata" non rappresenta alcun nodo fondamentale della narrazione e non modifica il cuore della trama. Vi invito, dunque, a proseguire la lettura senza preoccuparvi di aver perso dei pezzi importanti. //
Spazio autore
Ben ritrovati giovani lettori. Che mi raccontate di bello?
Oggi vi ho presentato un nuovo personaggio che è molto simile alla Primrose di Hunger Games.
Come pensate che andrà avanti la storia?
Chi verrà chiamato durante la cerimonia?
Scoprirete tutto tra pochissimo.
Ci vediamo il prossimo mercoledì.
Un abbraccio,
Francy
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Blind - Libro 1 [#Wattys2020]
Science FictionTrama: in un futuro post apocalittico ambientato in una società distopica, ogni anno vengono prelevati, tramite una cerimonia d'estrazione, alcuni ragazzi delle zone periferiche per essere scortati nella Capitale, luogo dove verranno a contatto con...