Capitolo 11

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Me la ricordo molto bene.

La nostra vicina di casa aveva una faccia lunga e una grande bocca, un che di equino che la rendeva quasi storpia. Due occhi inespressivi che non emanavano alcuna luce, freddi e spenti come biglie polverose. Il suo volto brutto e cavallino me lo ritrovavo davanti tutti i giorni quando uscivo, perché trascorreva ore intere su una sedia impagliata sull'uscio, incurante del caldo e del freddo.

La bruttezza era negli scarafaggi che si aggiravano con la loro livrea lucente sul pavimento dello scantinato e certe volte pure su quello della cucina, nello squittire dei topi che zampettavano contenti sulle terrazze fatiscenti. Quel che era peggio, però, era che la bruttezza era anche dentro di me, la sentivo cucita addosso come un'altra pelle sopra la mia. Stava nella freddezza degli occhi di mio padre quando la rabbia lo prendeva e gli trasfigurava il bel viso. Nelle sfuriate della sera, davanti alla minestra calda, nel modo convulso di raccogliere briciole dal tavolo e farne minuscoli mucchietti quando era contrariato per qualcosa, preludio di un'esplosione che poteva colpire alla cieca chiunque gli capitasse a tiro. Mio padre si trasformava allora in un demonio.

La sua rabbia però, non si scagliava quasi mai contro di me e Zoe.

Il demonio mascherato si svestiva di ogni bruttezza, davanti a me. La sera, dopo cena, seduto a tavola mi prendeva la mano e la teneva stretta per qualche minuto. Senza dire una parola, senza guardarmi in faccia, una docilità muta che io assecondavo con reticenza e quasi con paura. Forse gli volevo bene, in quei momenti. O magari lo detestavo ancora di più, perché si frapponeva tra me e l'odio, si mischiava alla mia natura brutta come la feccia nell'olio novello.

Avrei dovuto aiutarlo in quel periodo, ma ero ancora piccolo per capire cosa stesse succedendo, perché mio padre d'improvviso si fosse rinchiuso in una bolla fatta di rabbia e di depressione.

Non avrei mai potuto capire, per esempio, il significato dei lividi che ogni sera macchiavano il viso e il corpo di mia madre.

*

La parete di fondo scorre rivelando un altro ascensore. Mi guardo un'ultima volta attorno per vedere se ci sono delle vie di fuga, ma alla fine l'unica cosa che posso fare è entrare nel montacarichi e premere l'unico pulsante che mi conduce a un piano sotterraneo. Quando le porte dell'ascensore si aprono, non sono trascorsi nemmeno trenta secondi.

Davanti a me c'è una breve scala che mi conduce in un piccolo ambiente in parte pavimentato a mosaico bianco e nero, a grosse e rosse tessere e certamente molto tardo. Da questa stanza parte una seconda scaletta in muratura che con un banale dislivello mi accompagna al piano del lungo corridoio che, nel buio totale, si apre a destra e sinistra. Fortunatamente, alla fine della scaletta, c'è una lanterna appesa a un chiodo che utilizzo per illuminare la strada.

A metà del percorso, sulla sinistra, si apre una stanza la cui muratura esterna sembrerebbe molto antica, di epoca imperiale. Il piano appare pericolosamente aperto da sondaggi di scavo e lungo la parete più meridionale si nota un arco di scarico. Quasi al centro della stanza, in mezzo a una grossa quantità di terra di riporto, c'è una sorta di comignolo-lucernario il cui fascio di luce non riesce però a rischiarare l'ambiente sottostante. Mi limito perciò a gettare dentro qualche sasso per cercare di capire l'altezza. Il sordo "bluff" determinato dalla falda acquifera mi turba non poco. Decido di lasciare perdere e di proseguire.

Il lungo corridoio però si conclude con due stanze vuote.

Torno allora indietro fino al muro imperiale a metà del corridoio. Supero una stretta fessura e di fronte a me, dopo due muretti moderni, si presenta una visione che va creandosi proprio in questo momento.

Si tratta di un grandissimo stanzone terminante, con un innalzamento il cui piano superiore è raggiungibile grazie a una scala laterale in muratura e, sul lato meridionale, vi è una serie di grossi pilastri conficcati a terra conservati fino a notevole altezza.

Sul lato destro della stanzone c'è l'entrata di un cunicolo. Sapendo che non ho alternative, passo attraverso i pilastri e, tenendo la lanterna sollevata, entro in questa stretta galleria. Un lontano echeggiare risuona indistintamente nelle mie orecchie, confuso al rombo del flusso d'aria che corre in questo cunicolo. Man mano che procedo, le pareti sembrano stringersi addosso a me, il soffitto degrada sempre di più, fino a costringermi a procedere con la testa china.

Continuo. Dopo circa trecento passi, che sembrano tremila, il corridoio si allarga, il soffitto si fa più alto e l'ariaccia si dissolve: c'è addirittura una fresca corrente che ventila questo cunicolo in discesa e la luminescenza, che - esclusa la luce della mia lanterna - non risplende da una fonte luminosa ma permea l'aria di un strano bagliore, mi permette di proseguire distinguendo il cammino. Dopo un lasso di tempo che pare interminabile, giungo in una grotta immensa: la luce vi risplende chiara e diffusa senza tuttavia provenire da una sorgente apparente e, cosa ancora più strana, non ci sono ombre. Il pavimento è incredibilmente compatto: mi chino per toccarlo, sembra linoleum ma è più duro e più caldo; gli do due colpi con le nocche del pugno: è elastico.

Sul suolo al centro della caverna, appare un rilievo ovale. Mi ci dirigo senza farmi troppe domande. Mentre mi trovo al centro di quest'area, dalla base del pavimento inizia a salire una cabina trasparente che mi avvolge sino a circa un metro sopra la testa. Una voce, sempre sintetizzata al computer, comincia a parlare.

Per favore, indicate un livello.

Rimango perplesso, e dopo un po' la voce nella cabina ripete un'altra volta la stessa frase. Non rispondo, sto pensando a cosa dire o fare, quando le pareti trasparenti iniziano a rientrare nel suolo.

Sto per gridare un numero qualsiasi, quando una voce dietro di me mi urla di fermarmi.

Non ho nemmeno bisogno di girarmi per capire chi mi sta parlando.

«Reece, aspetta. Penso che quella non sia altro che una trappola. Sui pilastri dello stanzone da dove sei venuto c'è una mappatura precisa e dettagliata del sottosuolo cittadino. Questa rete sotterranea è costituita da un sacco di cunicoli, passaggi e gallerie. Tuttavia, c'è un tunnel lungo circa 20 chilometri che sembrerebbe terminare sul versante orografico dello Scafell».

Guardo Jace negli occhi. Sono così sollevato di poter finalmente rivedere qualcuno che conosco, anche se in una situazione abbastanza complicata come questa, che per un attimo non mi rendo nemmeno conto di quello che ha detto. Assimilo un attimo le sue parole prima di rispondergli.

«Non capisco, però», gli dico.

«Che cosa?».

«Perché condurci fino al cuore della città per poi farci nuovamente allontare?».

Rimane zitto, ponderando bene le sue parole.

«Se dovessimo domandarci il perché di tutte le cose, allora avremmo domande ben più difficili alle quali non sapremmo rispondere, non credi? Io non so dove ci vogliono portare e come mai, però non vedo alternativa. Penso che ora non abbia senso soffermarci a riflettere. Dobbiamo proseguire».

Così dicendo, mi fa segno di seguirlo.

Spazio autore
Hey guys, how are you?
Se lo scorso mercoledì ho deciso di fare sembrare il protagonista un genio, oggi invece è sembrato molto più ingenuo.
Vabbè, sarà anche stanco.
Come sempre, vi invito a continuare la mia storia e a commentarla se volete.
Io ora vado a fare due carezze al mio micio bisbetico. Ci sentiamo il prossimo mercoledì.
Un abbraccio,
Francy

Blind - Libro 1 [#Wattys2020] Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora