Il processo mnemonico non è riproduttivo, ma ricostruttivo. Ho imparato che per ricordare il cervello ricostruisce ciò che ha vissuto. E ricostruendo, la mente può inconsapevolmente aggiungere tasselli che nulla hanno a che fare con la verità. Per stress, per suggestione. Per rispondere all’idea preconcetta che una persona si è fatta di una situazione. Tutti questi aspetti costituiscono il vizio dei processi mnestici, un decifit che il cervello contiene creando falsi ricordi.
A volte, invece, la mente preferisce cancellarli del tutto.
Sono questi i pensieri che mi accompagnano lungo il tragitto, in un piccolo vagone dove, da delle strette fessure, entra continuamente acqua piovana. Immagino le gocce purpuree penetrare nei pori della mia pelle e aprirsi un varco nella carne come creature affamate dei lembi d’anima sopravvissuti.
Ho perso la percezione del tempo. Mi ricordo di aver trovato una fenditura sulla parete dove la guardia mi ha sbattuto prima contro e da allora non ho smesso di guardare fuori attraverso questo piccolo buco. Durante la partenza non mi sono accorto di questa fessura; ci ho fatto caso solo quando il treno è salito in superficie.
Mentre il convoglio ferroviario corre, osservo da vicino le mura di cittadine antiche che sorgono a ridosso di alcune colline ricamate da filari di viti, dove le tenute si alternano a boschetti d’acacie e tigli centenari. Il sole è ancora alto, nascosto in parte da delle nuvole grigiette, ma il crepuscolo arricchisce questa fioca luce dei toni più saturi del tramonto anche quando mancano alcune ore alla sera. Si tratta di una radiazione dorata, liquida, che scende tra il fogliame di queste foreste come gocce che rimbalzano sulla carrozzeria di un auto. Il paesaggio è una tavolozza di contrasti, di luci e ombre.
L’aria là fuori è tiepida, ma qualche folata di vento improvvisa porta già un’idea di frescura che pizzica la pelle. Quanto vorrei uscire da questo forno.
Ho il fiato corto, tremo per la paura di impazzire un’altra volta. Faccio finta che la fioca luce proveniente dalla fessura del vagone sia quella del lampione sotto la finestra della mia stanza. Aspetto che si spenga, che il buio si assottigli ad una lastra d’argento. Aspetto quel suono, quel breve clap d’interruttore nascosto in chissà quale casetta elettrica del muro portante, appena là fuori. Aspetto quel silenzio perfetto, senza il rumore del treno. Voglio toccare la coperta del mio letto, ricordarmi che è fatta di cotone, percepire la frescura di quegli spifferi obliqui dalle persiane.
Voglio sentire il formicolio del braccio troppo a lungo pressato dallo sterno, comandare al collo del piede di stirare il lenzuolo, carezzare il cuscino. Potrei provare anche ad addormentarmi; se chiudessi gli occhi e rilassassi il mio corpo, forse riuscirei a cadere in un sonno tranquillo. Potrei sognare di trovarmi nel giardino di un’isola. Percepire il caldo sulla mia pelle, vedere la luce battere sui limoni e il vento orientare una banderuola a forma di gallo, e sentire le foglie sussurrare come in vecchie canzoni. Sarebbe tutto così perfetto. Potrei sedermi su una panca e guardare sorridente la mia famiglia. Vedrei mio padre seduto al tavolo della veranda mentre sorbe la sua sigaretta in lunghe boccate, il posacenere ancora vuoto, la tazzina di un caffè già bevuto, la copia intatta di un giornale. Potrei vedere mia madre che dalla finestra del primo piano sgrulla la tovaglia per togliere le briciole del pranzo e, dalla finestra accanto, Zoe che annaffia le sue kenzie rigogliose e i suoi gerani in fiore. Forse più tardi saremmo andati a prendere un gelato o a fare un giro in bici. O forse mi sarei svegliato e mi sarei reso conto che il mondo è soltanto un vestito tagliato male. E allora avrei sperato che quelle immagini così belle rimanessero impigliate alle mie tempie per sempre, per sopravvivere a quelle realtà, ma non sarebbe mai stato così.
E non sarei mai più potuto tornare indietro.
D’improvviso sento freddo. Un vento terribile mi svuota le ossa, mi attraversa di elettricità e di una calma non umana; ho bisogno di così poco per dirmi vivo e finalmente perfino così poche domande e di una sola nostalgia per accorgermi di esserci ancora. Non mi importa nemmeno di essere in grado di reagire. E’ intensa come un istinto, questa resa. Non altro mi abita che la forza di viverla. L’acume della sua lama scinde gli organi, senza interromperne il funzionamento.
E proprio quando riesco a recuperare la percezione della realtà, un ricordo si fa strada nella mia mente, ricacciandomi indietro in un passato confuso. Sentivo soltanto le vibrazioni di lontani aeratori, e il tocco dei miei passi. Non era un grande scalpiccio. Le suole di gomma strusciavano sull’asfalto sbucciato, sulle briciole nere che rendevano quasi illeggibili gli schemi delle piazzole. C’era il vuoto, il silenzio, solo due o tre utilitarie nel chilometro buono che cingeva l’altura di un grande ospedale. Io ero lì, a respirare quell’aria velenosa e a osservare quella struttura che mi aveva ospitato per mesi e mesi. Gli occhi mi bruciavano e in testa avevo un fischio lacerante. La tosse mi sconquassava il petto. Ogni piccolo movimento era per me una tortura perché mi facevano male tutte le ossa, anche alcune che neppure sapevo di avere.
Mentre mi avvicinavo a una panchina per sedermi, fui colto da dei conati di vomito, ma cercai comunque di proseguire. Cominciai anche a tremare e battevo i denti come se fossero maracas. Avevo le vertigini, il mondo sembrava ruotare attorno a me. Provai a chiudere gli occhi, ma non servii a nulla. Fu solo questione di secondi prima che svenissi in mezzo alla strada. E fu questione di poche ore prima che mi risvegliassi sul letto dell’ospedale e mi rendessi conto che ero ancora imprigionato tra quelle mura. Perché io non potevo scappare. Ero la loro cavia per le sperimentazioni cliniche. Ero il soggetto perfetto di una ricerca che avrebbe cambiato il mondo. Non sarei mai potuto andarmene. Mai.
Quest'ultima parola riecheggia ancora nella mia testa, mentre il treno comincia a rallentare fino a fermarsi.
Spazio autore
Buonasera giovani lettori, come state?
Oggi ho deciso di condividere con voi un capitolo soft, fatto più che altro di riflessioni e descrizioni sulla stato di Reece.
Vi prometto che il prossimo mercoledì vi presenterò un pezzo della storia più dinamico di questo.
Mi raccomando, aspetto i vostri commenti o anche solo un saluto.
So che non ve l'ho mai detto, ma sappiate che vi voglio molto bene e mi sono affezionato a tutti voi. Siete magici!
Un abbraccio,
Francy
STAI LEGGENDO
Blind - Libro 1 [#Wattys2020]
Science FictionTrama: in un futuro post apocalittico ambientato in una società distopica, ogni anno vengono prelevati, tramite una cerimonia d'estrazione, alcuni ragazzi delle zone periferiche per essere scortati nella Capitale, luogo dove verranno a contatto con...