Capitolo 6

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L’aria mi vellica piano piano sulle guance. Il tempo sembra ancora una volta essersi fermato. Jace Wale fa scivolare via la sua mano da quella di sua sorella lentamente e comincia a incamminarsi verso la pedana. Io lo osservo e a volte faccio scorrere lo sguardo verso la folla, verso Katy. Quando suo fratello si posiziona accanto a me, il Presidente fa un cenno d’intesa ai Protettori. E’ ora di andare.

Una guardia mi ammanetta le mani dietro la schiena e mi spinge verso l’ingresso del Palazzo Centrale, mentre un’altra guardia cammina dietro di noi con un manganello pronto all’uso.

Prima di varcare la soglia, mi giro per un’ultima volta. Lei ha gli occhi cerchiati di rosso, gonfi e costellati di venuzze e striature che le arrivano fino al mento. Le lacrime hanno disegnato itinerari e percorsi, come piccoli fiumi che solcano la pelle. Si vede esattamente quante ne sono scorse e dove. Anche i miei occhi sono lucidi e sento che da un momento all’altro potrei cedere a un pianto che potrebbe durare per ore, ma mi trattengo. Prima di tornare a guardare in avanti, mi fermo e le grido che la amo. Poi la guardia che mi sta scortando mi strattona, invitandomi ad accelerare il passo.

L’interno del Palazzo Centrale è enorme. Percorriamo un lunghissimo corridoio e arrivati alla fine  giriamo a sinistra, verso una scalinata decorata da statue antiche, sarcofagi e lanternoni in bronzo. I nostri passi riecheggiano nel vuoto mentre saliamo al piano di sopra. Ad attenderci c’è una sala decorata con bassorilievi in stucco bianco che mi trasmettono un senso di monotonia nauseante e per certi versi anche inquietante. La attraversiamo ed entriamo in un’altra sala molto più piccola della prima, con degli affreschi nelle lunette della volta che ritraggono degli angeli nudi. Sembrano quasi vulnerabili, come me in questo preciso momento. Al centro della volta, all’interno di un grande drappo sorretto da putti, vi è lo stemma dei Walker, la famiglia Reale della Capitale. Sento un brivido percorrermi lungo la schiena quando lo osservo. Il Protettore sembra percepire la mia tensione e mi stringe con forza le manette per farmi accelerare. Raggiungiamo allora una stanza che sembrerebbe essere la Sala del Consiglio dei Ministri, con un tavolo rotondo al centro che dovrebbe ospitare le riunioni dell’esecutivo. La guardia con il manganello si avvicina a un caminetto di marmo sulla parete  di fronte alla porta d’ingresso e con le dita sfiora uno dei tre medaglioni di alabastro che lo decorano. Ho il presentimento che abbia premuto un pulsante e ne ho la conferma quando la guardia comincia a biascicare qualcosa in dialetto capitolino avvicinando la bocca al medaglione che ha toccato. Una volta finito di parlare, si gira verso di noi e con le mani fa cenno all’altro Protettore di seguirlo. Lui allora mi strattona per l’ennesima volta ma prima ancora che possa fare un altro passo, succede qualcosa d’imprevedibile, non solo per me, ma anche per le guardie, i cui volti per un attimo sembrano tradire una nota di panico. Nel Palazzo si sentono risuonare degli spari, rumorosi, tonanti colpi di arma da fuoco che echeggiano per tutto la piazza e ben oltre. Quando capisco cosa sta succedendo, mi metto a gridare e cerco di divincolarmi dalla presa della guardia, senza successo. Lui mi stringe ancora di più le manette e, latrando qualcosa di incomprensibile, mi costringe a muovermi.

Attraversiamo un altro corridoio, stretto, quasi soffocante, senza alcuna porta ai lati. In fondo, c’è soltanto un ascensore. La guardia col manganello preme sul pulsante di chiamata e dopo un minuto le porte di inox si aprono con un movimento dolce. Mi da’ l’idea di essere un segno fallace, come se fosse soltanto la quiete prima della tempesta. Quando entriamo nella cabina, lo specchio impolverato appeso a una delle pareti ci investe con il suo riflesso. A stento riesco a riconoscermi. Eppure, guardando attentamente quel ragazzo allo specchio, mi rendo conto che esso si accorda alla perfezione con ciò che sono adesso: una persona che ha perso tutto. Prima che le porte si richiudano, intravedo in fondo al corridoio il profilo di due guardie e di Jace, e sento lo stomaco contorcersi.

Una volta che l’ascensore comincia a scendere, conto circa un minuto e mezzo prima che si fermi. Le porte si spalancano con lo stesso movimento dolce con il quale si erano aperte prima, rilevando un altro corridoio, quasi completamente buio, illuminato soltanto da delle torce infilate in appositi sostegni agli angoli delle pareti; sul fondo si intravede uno spazio più ampio e chiaro. Mentre cammino, sento non soltanto gli squittii dei ratti, ma anche una sorta di lamento corale, un vocio indistinto risuonare lugubre per il corridoio. Sembrano voci umane, voci di donne e di uomini che emettono dei suoni privi di significato. Quando sono abbastanza vicino alla zona illuminata, riesco a mettere a fuoco l’immagine che comincia a palesarsi tra le nere mura di questa stanza e d’un tratto li vedo: seduti o distesi, inginocchiati, appoggiati alle pareti, gli uni sugli altri. Hanno dei vestiti laceri, la pelle nera di sporcizia che fa risaltare i bulbi oculari sui loro volti smagriti. Dei prigionieri. Qualcosa mi dice che sono qui da molto tempo. Qualcosa mi dice che sono qui da anni.

 Attraversiamo la stanza e arriviamo davanti a una porta metallica. Il Protettore dietro di me tira fuori un badge e lo fa passare davanti a un rivelatore, permettendoci l’accesso a un’altra zona. Quando superiamo la soglia, la porta si richiude dietro di noi con un tonfo, lasciandoci alle spalle uno spettacolo difficile da scordare. Questa stanza è leggermente più illuminata del corridoio di prima, ed è occupata al centro dai vagoni di un treno dall’aspetto sinistro, il quale mi ricorda molto le tradotte che i soldati della Capitale utilizzavano per le deportazioni dei nostri uomini. Ora che ci penso, potrebbe perfettamente essere uno di quei convogli.

Il Protettore che mi tiene ammanettato mi spinge verso una carrozza, e una volta arrivati all’ingresso mi sfila le manette dai polsi e con un gesto brutale mi afferra per un braccio e quasi mi sbatte di schiena contro la parete dietro di me. Quindi molla la presa, esce dalla  carrozza e chiude la porta, bloccando l’uscita.

Nel vagone non sono presenti finestrini per guardare fuori o per cambiare aria all’interno. Solamente alcune feritoie poste in alto mi consentono un piccolo ricambio e l’ingresso di una fioca luce che a fatica penetra nel buio di questa carrozza.

Mi siedo e fisso il vuoto davanti a me.

Poi impazzisco.

Spazio autore
Buonasera cari lettori, come state?
Ho appena rischiato di fare rovesciare la mia camomilla sul computer mentre scrivevo queste paroline per voi. Mi aspetto come minimo un encomio per questo.
Parlando della storia, oggi abbiamo fatto un giretto al Palazzo Centrale e il prossimo mercoledì scoprireremo  come continuerà il viaggio di Reece nel vagone.
Qualcuno ha notato delle somiglianze particolari con i carri per le deportazioni nei cambi di sterminio?
Aspetto con gioia delle vostre riflessioni e ipotesi sul seguito della storia.
Ci vediamo il prossimo mercoledì.
Un abbraccio,
Francy

Blind - Libro 1 [#Wattys2020] Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora