Le case di quella strada erano - e lo sono ancora oggi - tutte uguali. Graziosi rettangoli imbiancati a calce con finestrelle squadrate e tetti lisci e spioventi. La maggior parte dei davanzali erano decorati da vasi che contenevano fiorellini bianchi e azzurri, come se dovessero rispettare una specie di dress code di quartiere. A occhio, avrei detto che c'erano una trentina di raffinate abitazioni fatte con lo stampino.
Le osservavo mentre mi sfilavano accanto. A uno sguardo più attento, si notavano i tentativi di alcuni proprietari di aggiungere un tocco personale. Un garage con la saracinesca sgargiante, un'elegante placchetta con il numero dorato.
Arrivai di fronte al portone di casa mia. La chiave scivolò nella serratura e girò senza ostacoli, liscia e sgusciante come un pesciolino d'argento. La porta si aprì e il parquet in pino del pavimento si srotolò davanti a me. Da un vaso all'ingresso spuntavano rigidi rami verdi punteggiati di bacche sgargianti che sembravano di plastica. Nello specchio vidi una fila di fotografie incorniciate lungo la parete opposta e mi ricordai che il giorno prima mia madre aveva voluto appenderle vicino alla porta d'ingresso. Varcai la soglia e richiusi piano piano il portone dietro di me, quindi avanzai a passo svelto, voltando le spalle alle foto. Era l'una di notte.
Attraversai il corridoio diretto in cucina, ma delle ondate di suoni metallici e implacabili provenienti dal soggiorno mi costrinsero a fermarmi: musica drammatica, uno staccato di voci mormoranti. Aprii la porta e sbirciai dentro. Il computer diffondeva una luce tenue nella penombra. Lui vi era seduto davanti, la testa appoggiata a una mano e il gomito sul bracciolo del divano. Fissai lo schermo, su cui scorreva un telefilm poliziesco: arredi color panna e beige, smunti uomini in divisa che parlavano una lingua straniera in modo cupo.
Accanto allo poltrona dov'era seduto c'era un piccolo tavolino in faggio sul quale era appoggiata una flute piena di Tequila.
«Papà», gli sussurrai, senza ottenere alcuna reazione. I suoi occhi erano inespressivi e vuoti, ancora fissi sullo schermo. In quel periodo, quando lo guardavo, la prima cosa che mi veniva in mente erano delle foto in bianco e nero delle vittime di torture costrette dai loro aguzzini a rimanere svegli per giorni e giorni.
«Papà, cosa ti succede?», gli dissi mentre posavo una mano sulla sua spalla. Pensai di aggiungere qualcosa, ma non ci riuscii. Poco dopo, l'episodio sul computer finì e le scritte piccole e sfocate dei titoli di coda cominciarono a scorrere su uno sfondo completamente grigio. Un muro di suoni tristi si distese in sottofondo, il genere di musica sinistra e angosciante che mi faceva sentire come se stessi soffocando. Mi accorsi di essere bollente.
Perché non mi rispondeva?
Decisi di tirare fuori dal mio portafoglio una piccola fotografia e la posai accanto al bicchiere di vetro. Lui abbassò lo sguardo per guardarla. Mio padre rideva mentre mi teneva in braccio, con accanto mia madre che faceva lo stesso con Zoe, tutti con il cappello di lana e i guanti, sullo sfondo di un paesaggio scintillante e innevato. Avevo 10 anni.
Chissà cosa pensava mio padre in quel momento.
Io sentivo gli occhi umidi, cercavo di non piangere, di non farmi prendere dalla nostalgia. Ma l'impatto visivo con quel mistico candore che ammantava i contorni terrestri risvegliò in me un sentimento di ipnotica attrazione che non provavo da tempo. Era come se la neve potesse dialogare direttamente con i miei recettori emotivi. Chissà se era lo stesso per mio padre.
Secondo me anche crescendo, anche disfacendosi dolorosamente di quella morbida placenta fatta di ingenuità e di elementare sentire, anche gli adulti avvertono puntualmente l'emozione per la neve.
«Reece, vai a dormire che è tardi», disse con la voce di una persona che è a pezzi.
«Sono preoccupato per te. Guardati ... non ti riconosco nemmeno», gli risposi.
A quel punto chiuse di colpo il portatile ed entrambi piombammo in un buio quasi totale. Poi si alzò dalla poltrona e mi guardò dritto in faccia.
«Non farmi ripetere.»
«Allora dimmi cosa succede.»
«Reece», disse quasi digrignando i denti. «Obbedisci, per favore».
Rimasi immobile nel buio, a fissarlo.
«Papà, io non me ne vado finché...»
Prima che finissi la frase, lui lasciò partire uno schiaffo sulla mia guancia.
La pelle già scottava nel punto dove aveva affondato la mano.
«Ascoltami, ti prego....»
Ma ne arrivò un altro.
Le lacrime cominciarono a rigarmi il volto.
«Smettila!», gridai.
Ma ne arrivò un altro.
E un altro.
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Blind - Libro 1 [#Wattys2020]
Science FictionTrama: in un futuro post apocalittico ambientato in una società distopica, ogni anno vengono prelevati, tramite una cerimonia d'estrazione, alcuni ragazzi delle zone periferiche per essere scortati nella Capitale, luogo dove verranno a contatto con...