Capitolo 4

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Fu sotto una falce di luna calante, durante il giorno del Battesimo – una cerimonia per il riconoscimento di appartenenza al Dipartimento natale che si celebra quando un bambino compie 7 anni – che, per la prima volta, vidi la Capitale. Si adagiava quieta e sonnolenta sulla sommità di uno strano altopiano posto in un avvallamento contornato da bizzarre vette. Le mura e le torri, le colonne e le cupole, il lastrico delle strade, tutto era fatto di un marmo dal pallore spettrale, che mi faceva venire i brividi. Nelle strade marmoree si innalzavano pilastri, marmorei anch’essi, sulla cui sommità erano scolpite le effigi di uomini austeri e barbuti. L’aria era fredda e immota. Ed in alto, a circa dieci gradi dallo zenith, riluceva attenta la Stella Polare.

Io ero sul treno con mio padre e osservavo fuori dal finestrino quello spettacolo quasi inquietante, mentre mia mamma era rimasta a casa per potere badare a mia sorella, a quel tempo ancora una neonata. Durante il viaggio, immaginavo quanto fosse veloce la locomotiva. Le case scappavano via dalla mia visuale come se fossero impazzite, come se su di loro avessi perso ogni controllo, per cadere ingenuamente nel loro giogo impulsivo. Ogni tanto, davo uno sguardo all’interno del treno, il quale mi ricordava che lo scompartimento era completamente vuoto, salvo per la presenza di mio padre. Ed oltre ad essere desolato, era pure freddo. I finestrini erano come orbite vuote che fissavano il mio corpo, quasi per disprezzarlo, e i sedili assomigliavano a dei lunghi artigli affilati d’un bianco osseo pronti a graffiarmi in qualunque momento. 

Il freddo fatale non smetteva di invadere, con piccoli e continui assalti, il desolato ambiente, vessato solo dal fragoroso incedere del treno che picchiava sulle rotaie. In fondo allo scompartimento c’era una leva rossa che serviva a frenare il convoglio in caso di emergenza. Mi ricordo che riflettei a lungo sulla liceità dell’atto che volevo compiere, e alla fine non lo feci solo per un motivo: se non fossi andato a quella cerimonia, io e la mia famiglia saremmo diventati degli Emarginati. In altre parole, avremmo dovuto abbandonare il nostro Dipartimento e rifugiarci ai margini della società, dove avremmo dovuto vivere nella miseria più totale. E di sicuro questo non lo volevo.

Da quel giorno, visitai soltanto un’altra volta la Capitale, in occasione del Battesimo di mia sorella. Mi ricordo che io e la mia famiglia avevamo preparato due valigie ed eravamo partiti con una settimana d’anticipo, per potere visitare con tranquillità il centro della città, malgrado io e Zoe non fossimo sulle prime d’accordo. Quindi, affittammo una casa a nemmeno 100 metri dalla Cattedrale di Salwers, la cui struttura ricordava molto l’Abbazia di Westminster.

La dimora, quadrata e in stile georgiano, aveva il tetto con lucernario, porta d’ingresso con la classica lunetta a ventaglio, finestre a piccole pannelli di vetro, e tutte le altre caratteristiche dell’architettura del primo Ottocento, come del resto, tutte le abitazioni costruite nel centro storico. Passai molto del mio tempo a leggere in studio, una spaziosa stanza a sud-ovest, che da un lato guardava sul giardino davanti alla facciata della casa, mentre dall’altro le finestre ad occidente si aprivano sull’incantevole vista di una collina e dei magici tramonti che fiammeggiavano sui tetti cittadini sottostanti. Sul lontano orizzonte si profilavano i declivi purpurei del Parco della Memoria, e contro questi, a pochi chilometri di distanza, si stagliava la fantomatica gobba della Salwers Hill, affollata di tetti e irta di guglie, i cui vaghi contorni oscillavano misteriosamente, assumendo forme fantastiche quando il fumo della città si alzava velandoli.

Ma del lontano scorcio della Salwers Hill, l’unica cosa che mi incuriosiva veramente era l’enorme e cupa mole della Chiesa di Roter, un edificio consacrato per il culto cristiano e luogo dove da piccolo avevo celebrato il mio Battesimo. In certe ore del giorno spiccava con particolare nitidezza, e al tramonto la grande torre della guglia si stagliava nera contro il cielo fiammeggiante. Doveva sorgere su un terreno particolarmente elevato, perché la facciata scura e il fianco nord, di cui intravvedevo di sbieco il tetto spiovente e la porzione superiore di grandi finestre ad ogiva, s’innalzava arditamente sull’intrico di tetti e comignoli degli edifici circostanti.

Nonostante la bellezza del posto, avevo sempre e comunque il presentimento che un’atmosfera di desolazione aleggiasse sulla città, tanto che persino i colombi e le rondini evitavano le fuligginose grondaie. Tutto, comprese le persone, aveva un’aria cupa, inquietante e, per certi versi, persino surreale.

*

 Sento le mie scarpe dalle suole di para battere sul terreno ad ogni passo. Vorrei che questo momento di stasi finisse, perché non sento più il sangue scorrere nel mio corpo da diversi secondi, ma so che dovrò aspettare ancora. Le persone continuano a guardarmi, a fissarmi, e io non riesco a nascondere ai loro occhi il mio dolore. Cerco soltanto di tenere lo sguardo basso, ma quando comincio a salire i gradini per arrivare sul palco, sono costretto a guardare in faccia il Presidente e le due ragazze accanto a lui, in particolare Isabelle. Quando le passo accanto, noto due voglie sul suo collo e un altro ricordo confuso riprende vita nella mia mente.

Ero in ospedale. Una debole brezza cittadina entrava dalla finestra nella mia stanza e faceva frusciare la tenda che circondava il letto vuoto accanto al mio. Lo stordimento degli analgesici era svanito, e quando mi resi conto che il sonno non sarebbe tornato rimasi perfettamente immobile sul letto e mi sforzai di contenere l’ondata di orrore e di sofferenza che minacciava di travolgermi. Mi sforzai di controllare il dolore, di concentrarmi sul debole pulsare della mia testa bendata, sui rumori del grande ospedale tutt’intorno a me. A poco a poco il tremore agli arti cessò.

Ma quando mi ricordai dell’operazione del giorno prima, lottai di nuovo per arginare l’onda di dolore insopportabile. Allungai una mano in cerca del campanello e di un’altra dose di morfina che sarebbe arrivata poco dopo. Mi costrinsi a chiudere gli occhi ancora una volta, sperando di lasciarmi andare al gradevole abbraccio del sonno, tutto inutilmente. Forse, pensavo, non sarebbe mai più arrivato.

 Poi, udii un rumore. Una sensazione fugace di dejà vu mi suggerì che era stato lo stesso ad avermi svegliato. Aprii gli occhi di scatto. Era un gemito, e arrivava dal letto vicino al mio, nella stanza doppia. L’improvvisa fitta di panico fu sostituita da una sensazione diversa, che non riuscii – e non riesco tutt’ora - a descrivere. Dovevano aver sistemato qualcuno in quel letto mentre dormivo. Allungai la mano fino ad accarezzare le piaghe diafane della tenda e calciai via le lenzuola inamidate nel tentativo di piegarmi in avanti per vedere chi fosse. Provai una fitta di dolore nel compiere quel movimento, mai però così insopportabile come quello che vidi; gridai, cercai di strapparmi di dosso quella realtà, come le flebo e il tubo del respiro, come l’odore della trielina che invadeva la stanza, ma un gruppo di medici riuscì a immobilizzarmi e a iniettarmi una dose di Lorazepam. Mentre l’ansiolitico faceva il suo effetto, anche le immagini di Isabelle scomparivano pian piano. Il suo respiro affannoso, il petto che le si gonfiava, la bocca storta, il dolore che provava, tutto sembrava allontanarsi sempre di più, fino a svanire.

Spazio autore
Eccoci ritrovati, giovani lettori, con un nuovissimo capitolo del romanzo.
Oggi ho voluto sia parlarvi  del passato di Reece, sia analizzare meglio l'episodio all'ospedale.
La storia comincia a farsi intrigante. Tuttavia, di segreti e di misteri ce ne saranno ancora moltissimi. Questo è solo l'inizio della nostra avventura.
Ora, se mi permettete, vado a buttarmi sul letto, che sono sfinito.
Mi raccomando, non mancate il prossimo mercoledì sera.
Un abbraccio,
Francy

Blind - Libro 1 [#Wattys2020] Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora