Capitolo 7

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Arrivai davanti al condominio anonimo in cui abitavo. Portai il Ciao dietro quello stabile grigio di cemento, dove c'erano i garage, anch'essi anonimi.
Parcheggiai il motorino e salii in casa.
Aprii la porta e entrai.

Sofia se ne stava sul divano a guardare i cartoni animati alla tv. La salutai dandole un bacio sulla testolina bionda. Si voltò e alzandosi in piedi sul divano mi abbracciò.
Quello fu il momento migliore della mia giornata.

«Sorpresa! Sorpresa!» canticchiò allegramente.
«Quale sorpresa?» chiesi stupita da quella gioiosa affermazione.  
«C'è una sorpresa per Viola!» gridò e si rimise a sedere sul divano.

Mi diressi verso la cucina dove mia madre e mia cognata, Francesca, erano prese dall'arte culinaria. Mi avvicinai al tavolo e le salutai, annusando il profumo che sfuggiva da una pentola sul fornello.  
«Che cosa avete preparato?» chiesi affamata. 
«Lo spezzatino» risposero in coro.
Risero di gusto, scambiandosi occhiate stupide e consapevoli. Come se avessero pronunciato la loro migliore battuta del giorno.
Non le capivo.

«E non solo lo spezzatino» enunciò mia madre divertita.
Sul momento non diedi peso a quelle parole. Ero troppo affamata. Scrollai la testa, presi un piatto e mi servii lo spezzatino, anche se non era fra i miei piatti preferiti.
Mi sedetti a tavola, e invece di aspettare gli altri componenti della famiglia, mangiai. Piuttosto che niente, quello spezzatino era commestibile.

Osservai le due donne che si erano sedute di fronte a me, soprattutto mia madre, e pensai seriamente di fare una ricerca genealogica.
Come potevo avere diciassette anni e essere più matura di lei? Non potevo essere sua figlia.
Da chi avevo preso? Chi era la mia vera madre? I miei veri genitori? Avrei indagato.
Ruminai quei pensieri fissando il pancione di entrambe. Mia madre era di nuovo incinta.

Finii di mangiare e le lasciai prese dai loro discorsi sugli squilibri ormonali. Viaggiavano sulla stessa lunghezza d'onda: le loro ovulazioni avevano agito in simbiosi, tanto da rinsaldare la loro complicità giorno dopo giorno.

E io subii il primo effetto collaterale di questa situazione. Me ne resi conto appena vidi spuntare dal nulla mio padre.

«Ciao, Viola. Com'è andato il colloquio con Martinotti?» chiese, piazzandosi davanti a me.
La sua stazza metteva timore. Era alto un metro e novantatré.  
«Bene. Lunedì inizio.»  
«Ottima notizia. Dobbiamo festeggiare.»
Già, festeggiare.  
«C'è una cosa che ti devo far vedere» aggiunse con entusiasmo.  
«Cosa?» chiesi impaurita.  
«Una sorpresa.»
Per un attimo mi illusi. Pensai che mi avesse acquistato un computer, anche di seconda mano, quel computer tanto desiderato che non potevamo permetterci.

«Vieni.»
Seguii la sagoma di mio padre e percorremmo il corridoio che portava alle due camere da letto. Si fermò nel mezzo di quel lungo corridoio, aprì la porta dello sgabuzzino e dichiarò: «Ta-dan!» indicandomi l'interno. «Sarà soltanto una situazione temporanea. Quando si libererà l'appartamento del terzo piano, avrai anche tu una stanza normale. Una stanza tutta tua. Per il momento devi pazientare. La famiglia si sta allargando e qui dobbiamo adattarci.»

Io non dissi una parola.
Rimasi letteralmente a bocca aperta.

«Bene. Ora vado al lavoro. Ci vediamo stasera.»
E se ne andò, lasciandomi sola davanti allo sgabuzzino.

Che gran sorpresa mi aveva preparato il mio caro e amato papà...

In parole povere, il primo effetto collaterale che mi colpì fu quello di essere sfrattata dalla mia camera da letto. Quella condivisa con Giovanni per molti anni. Ma dopo aver messo incinta Francesca e averla fatta venire a vivere da noi, io ero quella che pagava le conseguenze.
In quel caso mi spettò una nuova camera da letto.
Lo sgabuzzino.

Non ne feci un dramma, visto che da molti mesi il mio nuovo letto era il divano. Troppo spesso ormai, venivo svegliata da strani rumori. Le prime volte mi ero chiesta cosa fosse stato e lui se l'era cavata dicendo che stava sognando di correre. Poi, a lungo andare, avevo capito che le sue corse notturne erano nient'altro che ansimi calorosi.
Insieme a lui c'era Francesca. Non stavano sognando di correre, stavano procreando il mio futuro nipotino.
Così avevo deciso di dormire sul divano in sala. Quegli ansimi non mi facevano chiudere occhio.

Ovviamente, nessuno aveva chiesto nulla sulla mia nuova situazione notturna, anzi, il mio lettuccio a una piazza era stato tolto e messo in cantina per fare posto a un gran bel letto matrimoniale per i due maratoneti.

Osservai l'interno della mia nuova camera.
Mio padre era riuscito a incastrare non so come il mio lettuccio a una piazza dentro quel loculo senza finestre, aveva fissato una fila di armadietti lungo tutta la parete di sinistra, che fungevano da armadio, mentre una pila di quotidiani formavano una specie di comodino, incastrato tra il muro e il letto.
La mia nuova cameretta era pronta.
Uno sgabuzzino abitabile.

Presa da quel nuovo evento, decisi di spostare vestiti, libri, cd e aggiungere un tocco di luce in quel loculo abitabile. Quella misera lampadina attaccata a un filo grigio che scendeva dal soffitto mi metteva troppa tristezza. Così, piazzai l'abat-jour sulla pila di quotidiani e provai a stendermi sul letto.
La visione del muro tutto intorno mi trasmetteva la sensazione di essere tumulata. Mi avevano appena seppellita e tanti cari saluti, bambina mia. Problema risolto.

Che situazione miserabile.
Consapevole della povertà familiare, non avevo mai chiesto nulla di ciò che non potevo permettermi. L'unico mio strumento elettronico era uno smartphone di seconda generazione. Seconda, perché prima di me era stato usato da mia madre. A me stava bene. Perlomeno, possedevo un aggeggio che mi faceva evadere dall'ignoranza che invadeva quella casa.

Carlo, mio amico e dirimpettaio, un giorno mi diede la sua password per attaccarmi con il wi-fi e poter navigare nel mondo del web. Non mi interessavano i social network, ero attratta da siti di libri, viaggi e musica. E poi, con il wi-fi potevo attaccarmi a Whatsapp.
Ma addirittura essere sepolta viva in quello sgabuzzino abitabile mi sembrò troppo. Talmente troppo che rimasi in silenzio per tutto il tempo.

Presi il taccuino e aggiunsi un nuovo termine nella lista. Avevo la fissazione con le parole e il loro significato. Quelle parole così difficili e lontane dal parlato comune che vigeva in casa mia. Così avevo deciso di creare un elenco con la parola del giorno.
Cercai su Internet e scelsi longanimità:
costante atteggiamento di generosa indulgenza o di sopportazione.
E io mi sentivo abbastanza longanime. Sopportavo tutto ciò che la mia famiglia faceva.

Chiusi il taccuino, andai in bagno e feci una doccia. Mi sentivo spossata.
Quando finii, tornai nel mio sgabuzzino abitabile.
Stretta all'interno di quelle mura, seduta sul letto, mi tolsi l'accappatoio e indossai l'intimo. Tentai di capire come muovermi per potermi vestire. Provai ad allungare le gambe, per infilarmi i jeans, ma andarono a sbattere contro il muro, così, allungai le gambe sul letto e, da sdraiata, riuscii a indossarli. Presi una maglietta e mentre la infilavo, sbattei il gomito sinistro contro il muro.
Amareggiata e silenziosa, rimasi sdraiata sul letto e mi addormentai.

Spazio autrice:
Ehila, Wattpadiani, come state?
Vi ho presentato la famiglia di Viola: che ne pensate? 😜❤️

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