7. Il bosco delle campanelle

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La A49 era deserta e impellicciata dall'umidità della notte. Quando scavalcai il ponte sull'Emstrey avevo ancora la testa vuota e pesante, e provai ad alleggerirla fermandomi a guadare la corrente, sperando che portasse via qualche pensiero, ma niente.

Proseguii come se avessi una catena ai piedi e non sotto ai pedali. Avevo le gambe indolenzite, le braccia rigide e il petto pieno di lividi che non si vedevano. Riuscii a mettere in fila il primo ragionamento sensato solo quando superai le poche case di Brompton, che mi lasciai a sinistra, perché avevano lo stesso nome di una famosa marca di biciclette pieghevoli che avevano spopolato qualche anno fa. Ne anche avevo provata una al negozio, prima che papà si facesse sbattere fuori, e l'avevo trovata bizzarra, con quelle ruote piccole e il telaio pesantissimo, diverso da tutti quelli delle altre bici: si piegava a cerniera facendo della bici una fisarmonica, con i meccanismi di trasmissione custoditi all'interno. E costava una fucilata.

Papà per qualche giorno ne aveva parlato come se stessimo per comprarla, ma poi, per fortuna, se n'era dimenticato e io avevo continuato i miei progetti per costruire Azzurra.

Costeggiai alcuni laghetti paludosi, bordati di canne, a cui era rimasta impigliata ancora un po' di nebbia. All'incrocio successivo mi inclinai pericolosamente sulla strada e per poco non caddi. Sterzai velocemente e mi ricomposi e lo spavento, se non altro, mi svegliò del tutto. Non potevo correre il rischio di cadere o farmi male in modo così stupido. Mi costrinsi a essere più presente a me stesso: dove stavo andando, perché, quale sarebbe stata la strada migliore da fare. Avevo scelto tutte le stradine più defilate, i viottoli secondari che puntavano a sud, seguendo la A49, ma lontano dalla strada principale.

Non avevo un'idea chiara del percorso che avrei fatto quel giorno: pensavo che lo avrei studiato all'abbazia prima di ripartire, ma le cose poi erano andate come erano andate. Contavo quindi di andare genericamente a sud per una metà giornata e poi fermarmi da qualche parte a fare il punto.

Ad Acton Pigott rimasi in surplace nel crocevia deserto, scegliendo la strada che portava al castello. Con Lukas facevamo spesso gare a chi riusciva a stare più tempo senza appoggiare il piede a terra, ma il bello della bici è che non esiste un punto di equilibrio che ti permetta di stare fermo: il punto di equilibrio è sempre un po' davanti a te, come la fine degli arcobaleni. O rinunci e metti il piede, o devi continuare a muoverti.

Mi sentivo tormentato e deliziato al tempo stesso. Mi struggevo pensando ad Annabelle Nash ed ero sollevato dalla distanza che stavo progressivamente mettendo tra me e lei. Avevo male dappertutto, ma anche con tutto quel male le ruote giravano comunque sulla stradina asfaltata, il sole splendeva anche se mi pareva nato storto e, prima che qualcuno si potesse chiedere chi diavolo poteva aver chiamato una consegna di Deliveroo a quell'ora del mattino, ero già schizzato via. Quando fui abbastanza tranquillo staccai entrambe le mani dal manubrio e mi misi gli auricolari, sperando che partisse una canzone perfetta.

Ne partì una di una dolcezza abissale.

Avrei preferito qualcosa di completamente diverso, che mi schiaffeggiasse l'umore, un pezzone degli Stranglers o dei Foals, qualcosa di epico, com'era la voce di Greg Lake, ma senza rimpianti.

Mi ero dato una regola: mai forzare l'ordine delle canzoni che sarebbero venute. Ognuna sarebbe stata perfetta, sarebbe arrivata nel momento esatto in cui doveva arrivare, perché ogni caos aveva un suo significato. E se non ce l'aveva nell'immediato, ce l'avrebbe comunque avuto.

Pedalai sopra a tutta quella tristezza e cominciai anche a salire, accompagnato dalle note meccaniche del mellotron, uno strano strumento ormai scomparso, che però una volta il nonno aveva dovuto trasportare a un concerto e mi aveva raccontato di aver tirato giù le peggiori maledizioni, perché pesava più di cento chili. Anche io mi sentivo così, su da quella salita: cento chili di tristezza e melanconia, anche se non c'era niente di male a essere tristi, o spaventati o incazzati per quanto pesano la cose.

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