8. La casa delle rose

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Il gracchiare delle cornacchie mi riportò al presente.

Facevano un baccano infernale, e si erano messe a giocare proprio là dove il bosco terminava nell'erba. Sembrava che qualcuno stesse facendo una gara a tirare sassi sulla strada. I corvi non sono animali da boschi, né da spazi aperti: stanno al confine, di vedetta, dai loro nidi intricati. Sono socievoli e scenosi. E quelli dovevano essere giovani, da quanto ci davano dentro. Li contai: erano in sei, tutti neri, dalle zampe al becco, sguaiati e rissosi.

Ripiegai la mappa a metà, cercando di capire cosa avessero da far tanto casino. Avevo ancora fame, ma interpretai la comparsa dei corvi come una specie di segnale per ripartire, e mi arresi all'idea di dovermi rimettermi in marcia.

E poi pensai.

Non erano forse stati i Ravens, il primo gruppo di Fripp?

Il caos, vedete?

- Sempre presente, nonno - sussurrai tra me e me, recuperando Azzurra, e spingendola tra le campanelle del sottobosco.

Fu quando mi affacciai sul campo che lo sentii abbaiare per la prima volta. E mi resi conto che in realtà era un bel po', che quel cane abbaiava. Più che un normale abbaiare, poi, sembrava un lamento, un ululato.

Mi spostai a guardare. Veniva dalla casa in fondo, di cui riuscivo a vedere solo il tetto e le fronde irregolari degli alberi intorno. Saranno stati duecento metri, non di più. Mi sembrò strano, non avrei saputo dire perché, così come era strano, se solo le cornacchie fossero state zitte un istante, quell'altro rumore di fondo, come un grande ronzio, un vorticare elettrico, un brusio nervoso che non aveva alcuna spiegazione apparente, lì in campagna.

L'ululato si ripetè e i corvi divennero ancora più agitati. Strinsi le mani sul manubrio, con una parte di me già pronta a saltare in sella. Ma poi vidi attorno a cosa si stavano accanendo quegli uccelli, e mi salì un brivido fino all'attaccatura dei capelli: era una camicia da donna con i bottoni di madreperla. L'avevano stesa sull'erba e ci balzavano intorno come danzatore a un tamburo, cercando di strapparle i bottoni luccicanti a colpi di becco.

Mi prese una sorta di furia selvaggia e: - Sciò! - Gli gridai. - Sciò! Via! Via! Andate via, bestiacce!

Spinsi la bici in mezzo a loro fino a disperderli e loro se ne volarono via irritati. Si nascosero al limitare del bosco, da dove presero a lanciarmi schiocchi rabbiosi simile a fucilate o altri versi petulanti.

Raccolsi la camicia.

L'avevano lacerata su una manica, ma per il resto mi parve ancora buona. Dovevano averla rubata di fresco dalla casa lì a valle. E io ovviamente potevo lasciarla lì, e forse avrei proprio dovuto farlo. Che i corvi ci giocassero, dopotutto non erano affari miei Ma per qualche motivo non mi parve una cosa giusta da fare. Solo per il fatto che dovevamo restarcene tutti chiusi in casa per evitare i contatti, mi dissi, non significava che dovevamo anche diventare dei selvaggi. E poi c'era questo cane che continuava ad abbaiare in modo terribile, là sotto.

Così spinsi la bici nell'erba, che era abbastanza alta da infilarsi nei jeans e farmi il solletico al polpaccio e mi avvicinai alla casa tenendo la camicia sul manubrio. Non so cosa pensassi di fare, esattamente: c'era un gran caldo, l'aria brulicava per quel ronzio costante, e io camminavo con le mani strette sul manubrio di Azzurra. Forse mi ero messo in testa di arrivare vicino alla casa e di appoggiare la camicia sopra una staccionata o al cancello poderale, magari con una pietra sopra perché le cornacchie non la rubassero una seconda volta, o magari di rimetterla sui fili del bucato, che di sicuro dovevano essere da qualche parte là in fondo.

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