Lungo il sentiero che scendeva verso Stokesay cercavo di non pensare a niente, di non pensare a lui, alla casa, ai calabroni, alle rose, e ai due vecchietti distesi nel loro letto. Pedalavo come avevo fatto la mattina e il giorno prima, anche se sapevo benissimo che era di nuovo cambiato tutto. Shackleton correva a fianco a me, concentrato, tenendo le mia stessa, costante velocità.
Mi sembrò una cosa bella, potente, e forse non dicevo niente per paura di rovinarla. Shackleton era un cespuglio di pelo nero dal muso quadrato, come quegli arieti per sfondare i portoni in un assedio. E anche se ci eravamo incontrati da meno di un quarto d'ora, mi sembrava naturale che fosse lì con me.
Non lo sentivo estraneo, non era distante.
Non avevo paura.
Mentre scendevamo lungo la collina avevo deciso, da com'era esuberante, che doveva essere piuttosto giovane. Che era poco più di un cucciolone, pur senza sapere assolutamente niente di cani. Era alto quanto la mia cintura, forte. Aveva le gambe lunghe, agili, di chi sa correre. Ma non lo sapevo per davvero, non ne avevo la minima idea. Non sapevo quanto potevo spingere sui pedali, quanto a lungo poteva correre un cane, e nemmeno in che modo l'avrei capito. Ma per qualche motivo la cosa non mi spaventava.
Il panico di averlo con me era durato il tempo di dieci pedalate. Mi ero dovuto mettere in testa che c'era per davvero, che era vivo, che aveva intenzione di restare.
Che si fidava di me.
Era una sensazione del tutto nuova. Ed ero sorpreso da quanto fosse inebriante.
Il suono di un treno che correva sui binari tagliò l'aria davanti a noi.
La sua decisione era stata istantanea, almeno quanto la mia di non cercare di impedirgli di venire via con me.
Mi guardai le mani strette sul manubrio, abbracciate alla mia signora con le ruote. Il giubbotto di Joe, grande sulle spalle. Con quel cane al seguito, mi dissi, non potevo certo più sembrare uno che faceva le consegne.
Oppure sì?
La gente era matta. Il mondo era strano.
Chi si sarebbe accorto di me?
Non avevo preso un guinzaglio, ma non tornai certo indietro per recuperarne uno. Volevo allontanarmi da quella casa il prima possibile. Sapevo da mio papà e dall'assistente sociale che quelli del 999 tracciano sempre le chiamate che gli arrivano e, soprattutto quando non risponde nessuno, mandano qualcuno a vedere. Qualcuno che già si aspetta il peggio, che sa cosa fare con un picchiatore, con gli ubriachi e i fuori di testa. Gente che non si fa spaventare dagli urli. E lo fanno perché pensano a chi potrebbe essere appeso a quel numero come a una zattera di salvataggio. E spesso hanno ragione.
Anche se sono già morti, come nel mio caso.
Mi domandai se c'era modo di risalire a me. Avevo lasciato le chiavi nella porta, e moltissime tracce, così come Shackleton. Ma non avevo fatto niente di male, a parte rubare loro una bottiglia di champagne che non sapevo nemmeno se avrei mai bevuto, due pacchi di biscotti e un pezzo di formaggio.
Forse avrei dovuto levargli il collare con il suo nome. O forse portarlo da qualcuno in paese che lo conoscesse?
Non sapevo esattamente cosa fare.
Ma non volevo che andasse via.
- Quanti amici hai, Shakleton, eh? - Gli domandai, rallentando un po' per tenermelo di fianco. - Conosci qualcuno, là a Stokesay? Vuoi rimanerci?
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HoopDriver
AdventureBilly è un ragazzino che scappa da casa e fa 200 miglia in bicicletta per mantenere una promessa: raggiungere il nonno alla casa di riposo in cui vive, prima che sia troppo tardi. Così la promessa si trasforma in un viaggio unico. Questa storia fa...