11. Alla corte dell'Ingegnere Cremisi

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- Stai da questo lato, ragazzo. Contro il vetro, così. E cerca di non starnutirmi addosso, ok?

Mi aveva aperto la portiera della sua strana macchina. Una vecchia famigliare color verde chiaro, con i profili delle portiere di legno.

Salii senza protestare.

Dentro la macchina c'era una sola fila di sedili. Quelli dietro erano stati rimossi per formare una lungo bagagliaio dove era già ammucchiata una gran quantità di ciarpame. Lui aprì la porta posteriore e spinse prima Azzurra, poi fece montare Shackleton. O almeno ci provò, perché lui non sembrava così convinto.

- Chiamalo - mi ordinò.

Gli fischiai e Shackleton si infilò in macchina con la coda tra le zampe, procedendo poi a gattoni fino a mettermi il muso contro alla spalla.

L'uomo chiuse. Fece il giro e si sedette al voltante. Agganciò l'uncino alla marcia e lo usò per innestare la prima, mentre avviava il motore con la mano buona.

- Quando ti abitui, è piuttosto pratico per non mancare la marcia - disse.

Rimasi zitto.

Ci avviammo.

- Non sei uno di tante parole, eh?

Guardai fuori dal finestrino, mentre l'auto sobbalzava sullo sterrato. E dopo un paio di curve in silenzio, lui accese la radio. Sentii dalla voce del notiziario che Boris Johnson era stato intubato, ma che non era in pericolo di vita.

- Che ti ho detto? - Esclamò l'uomo. - È una brutta bestia.

Ma non mi fu del tutto chiaro se alludesse alla malattia o a lui. Cercai di leggere l'ora sull'orologio unto della sua macchina. Le due del pomeriggio. Mi sembrò impossibile, a meno che non fossi svenuto sotto a quella roccia. Eppure era così. Cercai inutilmente di capire dove mi stesse portando, ma avevo troppi pochi punti di riferimento e per giunta guidava veloce, sterzando all'ultimo momento. Mi sembrava che stessimo girando intorno nella stessa porzione di campagna dove ero caduto, ma non ne potevo essere sicuro.

- Mi dispiace per le pecore - dissi, a un certo punto.

- Quali pecore? - Rispose lui.

Per cui scartai l'idea che fosse il proprietario del campo. Quando il paesaggio si aprì un po', guardai fuori e poi dietro di noi, ma non riconobbi nessun posto.

- Dove stiamo andando? - Gli domandai.

Nella mia personale classifica mettevo: una clinica, un ufficio della polizia, un ufficio postale, una fattoria.

- A darti una rabberciata - rispose lui, senza guardarmi.

Avevo indovinato, decisi. Notai che teneva una mascherina appeso all'asticella dei fari. E lui notò che la notai.

- Quella è se ci fermano - disse. - Ne hai una?

- No.

Mi indicò il cruscotto. - Deve essercene un paio, lì dentro.

- Io sto bene.

- Chiaro che stai bene. Per questo dovresti mettertela.

- Non mi sono fatto male.

- Uh. E io ho ancora dieci dita.

Lo guardai, ma lui fissava la strada. Abbassò il volume della radio, lasciandola come sottofondo.

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