12. L'Alchimista

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Adoravo mettere e togliere i dischi sul piatto.

Era una delle cose che facevo a casa del nonno, quando stava ancora a Liverpool. Mi piaceva l'attenzione che serviva, lo stare lì, con la puntina sollevata, e il disco che girava in modo ipnotico.

Quando ero uscito dal vagone avevo trovato Shackleton accucciato nell'erba davanti all'officina aperta, accanto al signor Richmal. C'era una scala appoggiata sul tetto, e una trave su due cavalletti.

- Buongiorno - mi aveva salutato l'uomo con l'uncino. - Dormito bene?

Altroché. Ero senza parole per il modo in cui ero crollato. Mi sentivo in colpa, come se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Ma lui non sembrava averci fatto molto caso. Mi aveva spiegato dove potevo trovare le cose per fare colazione continuando a lavorare alla sua trave. Si era informato su come stavo senza nemmeno guardarmi, sempre con il cane che gli girava tra le gambe.

Traditore, vigliacco, approfittatore, avevo pensato, accorgendomi di come Shackleton avesse immediatamente capito chi era il capo, lì.

Le costole facevano male, ma riuscivo ad alzare e abbassare il bracci. Era come avere una paio di radici di legno conficcate nel fianco. Il gomito si stendeva senza problemi, con una scarica ogni tanto se lo torcevo senza accorgermi. Mi ero servito una gigantesca tazza di latte ed ero uscito fuori, nell'aria fresca del mattino.

- La bici? - Gli avevo chiesto.

- Dove l'abbiamo lasciata ieri sera - mi aveva risposto il signor Richmal. - Come da ordini ricevuti.

E me ne aveva dati altri, mentre mangiavo e bevevo il latte: solleva un po' questa, aiutami a spostarla di lato, giriamola, di qui, bravo, tieni, fino a che aveva levato tutti i chiodi da quella vecchia trave e piallato ogni asperità.

A quel punto mi aveva mandato dentro a mettere un po' di musica. Dato che finalmente mi ero svegliato.

- Così pensiamo alla bici - aveva aggiunto, appoggiando la sua mano uncinata sulla trave.

Avevo girovagato dentro casa osservando un'altra volta la sua collezione di oggetti, e poi avevo tirato fuori dalla sua collezione di LP, schifosamente vecchi, come quelli del nonno che conoscevo io, Let It Bleed degli Stones, lascia che sanguini, un album duro, secco, ma anche dolce, soprattutto perché aveva in copertina una torta farcita con una ruota di bicicletta. Fu come se mi stesse chiamando. L'avevo già sentito un paio di volte, e il nonno mi aveva raccontato che l'avevano scritto dopo che era stato ucciso un ragazzo a un loro concerto degli Stati Uniti e Brian Jones era finalmente uscito dalla band. Era uno spartiacque, la fine di un'epoca, diceva sempre il nonno, e si capiva che intendeva molte cose diverse, ma non quali.

Non a caso, però, finiva con la canzone non puoi sempre avere tutto ciò che vuoi che avevo cantato a Shackleton il giorno prima, prima che ogni cosa andasse a rotoli e mi trovassi bloccato lì, nella casa in mezzo al bosco di capitan Uncino.

Quando appoggiai la puntina e la guardai correre sulla traccia, mi sentivo elettrizzato come se avessi appena dato il via al conto alla rovescia di una bomba.

- Alza! - Mi gridò il signor Richmal, da fuori.

Non mi feci pregare. Il giro di chitarra di Richard mi spazzò come un fiotto di disinfettante.

La sveglia, finalmente.

Lo raggiunsi nell'officina, al di là delle cataste di legna per la stufa, impilate come piramidi. Altro che casse, pensai. Gli Stones uscivano dal suo impianto VOX come se fossimo stati al loro concerto di Hyde Park, quello che era finito con tremila farfalle bianche libere sul pubblico. La musica si riverberava intorno a noi come un lago magnetico.

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