10. Nostra Signora dello Sterzo

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Alle quattro del mattino dopo venni svegliato dal canto furioso delle allodole.

Non riuscivo a capire dove fossi. Quando ti svegli di soprassalto mentre stai sognando, i sogni faticano sempre ad andare via.

Ero ancora nel bosco.

A Wigmore.

Il sacco a pelo era fradicio di umidità notturna, tranne dove Shackleton continuava a dormire come se niente fosse. Allungai una mano e lo accarezzai, ricollegandomi a poco a poco con la realtà.

Davanti a me si stendeva un mare di nebbia bianca, da cui sbucavano altre colline come un arcipelago di isole, come altrettanti mostri marini. Il cielo era grigio, un ammasso di nuvole di lana aggrovigliate tra loro. E nel bosco, alle mie spalle, era tutto un inseguirsi di canti e di richiami: i rondini si lanciavano in picchiata dai loro nidi di paglia nelle mura del castello; i merli sfrecciavano tra le foglie e l'edera, e in generale gli uccelli sembravano impegnati a stendendo i fili invisibili a cui la notte si sarebbe appesa per asciugare.

Protetto dal tepore del sacco a pelo, non osavo muovermi, sopraffatto da tutta quella vita così inaspettata e dalla spaventosa vastità della natura intorno a me. Non era una sensazione soltanto negativa: in qualche modo mi sentivo, anche, di farne parte. Era come se, dopo la discrezione con cui gli alberi ci avevano accolti la sera precedente, dopo quella notte di sonno, ci avessero accettato.

Trovai il pensiero commovente. E per non farlo andare via rimasi a fissare tutto quel via vai sapiente e indaffarato e poi un uccellino di cui non sapevo il nome, con le piume rosse e gialle e una sorta di cresta spettinata che cantava solitario all'estremità di un lungo ramo, come una nota musicale in equilibrio su un pentagramma stracciato.

Per chi cantavi, uccellino?

Per cercare l'amore o per ricordarti di quello perduto? Perché avevi conquistato quel ramo e semplicemente perché sapevi cantare, ed era la tua goccia di bellezza nel grande equilibrio del mondo?

Non mi ero mai chiesto perché gli uccelli cantassero, alla mattina e alla sera più che in qualsiasi altro momento della giornata, e mi domandai se anche per me era ancora così.

Io cantavo quando ero allegro, quando la vita mi andava stretta e avevo voglia di cambiarla. Invece, quando ero triste, quando mi sentivo solo, ascoltavo le canzoni degli altri.

Quell'uccellino non mi sembrava solo. Era una parte del bosco intorno a lui: aveva le piume dello stesso colore di un certo fiore, era grande come quell'altro fungo, e altri uccellini rispondevano a eco ai suoi trilli. C'era una fitta rete di corrispondenze e lui sembrava essere al corrente del suo ruolo: saltellava sulle zampette e poi si fermava a gorgheggiare come il cantante dei Jethro Tull che suonava il flauto in equilibrio su una gamba sola. Non che io gliel'avessi mai visto fare, sia chiaro, ma il nonno a volte lo imitava, nel magazzino degli strumenti musicali, e allora uno dei commessi correva a mettere su l'LP di Aqualung. E tutti giocavano a fare i menestrelli.

Più mi lasciavo pensare, più mi tornava la sensazione del mio corpo disteso e ammaccato dentro al sacco a pelo.

Ammaccato, ma leggero.

Mi sentivo bene.

E all'improvviso mi venne una gran tristezza, perché pensai a papà, a casa, e mi domandai cosa stesse facendo. Era il secondo giorno che mancavo. Aveva chiamato la scuola, Lukas, il 999?

Stava male?

Era lucido?

E Joe era passato a portargli la cena?

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