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Quella mattina mi ero dimenticata il quaderno di biologia a casa. Lo cercavo disperatamente nello zaino stracolmo di cose, senza risultati. Quella mattina Giulio non si era presentato a scuola, lasciandomi sola. Quella mattina la prof di latino aveva interrogato metà della classe facendo una strage. Mi ero salvata per un pelo. Quella mattina avevo il telefono al 50%. Quella mattina stava piovendo ed io avevo dimenticato l'ombrello a casa insieme al pacchetto di sigarette. Quella mattina avevano sparato a Lauro.
Nell'antica Grecia, così come nell'antica Roma, ci son sempre dei segni che predicono una catastrofe. Per me era la pioggia o il dimenticarmi qualcosa a casa, così come era successo quella mattina.
<Narchi tutto bene?> mi chiese la prof di educazione fisica vedendo che stavo ferma in mezzo al campo mentre tutti correvano. Annuisco lentamente, poi mi accodo. Passo vicino al banco dove lasciamo i telefoni e vedo che il mio sta squillando e che c'è il nome di mio cugino sopra. Continuo a correre, non mi sfiora ancora il pensiero che sia potuto accadere qualcosa di spiacevole. Per quell'ora mi distraggo: giochiamo a pallavolo, Aria e le altre in squadra con me, ridiamo tantissimo, e io sono leggera, quasi. Poi, appena torniamo in classe e riafferro il telefono, le 10 chiamate perse di mio cugino mi fanno preoccupare. Chiedo il permesso prima di uscire dalla classe e richiamarlo. <Hanno sparato a Lauro, stava-stava andando a concludere un affare e gli hanno sparato> mormora. Il mio cuore fa un tuffo, mentre mi siedo nella scala anti-incendio dell'istituto. Tommaso ed Aria escono dalla classe e mi guardano preoccupati, mentre mi copro il viso con le mani. <Appena esco, vengo in ospedale> prometto. <No, c'è Elena, non voglio che venga qui> asserisce. Scuoto ancora di più la testa. <Per favore Edo non scassare le palle> quasi urlo, acida. Sospira. <Ci vediamo dopo allora> dice, prima di riattaccare. I miei compagni mi guardano preoccupati, ancora. Decido di tornare in classe.
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L'autobus è pieno di gente, mia sorella mi chiede di essere presa in braccio mentre faccio fatica a farlo per la mole del suo zaino e il ristretto spazio. Il viaggio dura poco, per fortuna, è appena scendiamo, a passo svelto, mi precipito alla reception. <Salve, De Marinis?> chiedo. La centralinista mi guarda perplessa, poi digita qualcosa al computer. <Stanza 560> dice. Ringrazio, poi dirigendoci verso il bar dell'ospedale dove acquistiamo due panini per pranzare. Elena sembra distrutta, ed effettivamente ha ragione perché dovrebbe dormire. Me la carico in braccio e raggiungiamo il piano, poi la stanza. Edoardo sta in piedi, facendo avanti ed indietro per la piccola stanza mentre Lauro dorme, ha due cannule nel naso ed una flebo nel braccio sinistro. Ha il torace fasciato. <Ma starà bene?> domanda mia sorellina, balzando giù ed entrando nella stanza, senza ricevere risposta. Edo la accoglie con un sorriso spento, mentre io faccio il mio ingresso. Mio cugino si precipita ad abbracciarmi, scoppiando in lacrime. <Le sue condizioni sono stabili, ma non uscirà prima di qualche giorno, per fortuna non ha nulla di grave, ma è sotto anestesia. Mi son preso un colpo> spiega. Lancio il mio zaino vicino a quello di mia sorella, per poi affiancarla: sta guardando Lauro come se fosse un dipinto bellissimo, anzi una statua. Gli accarezza la mano. Poi dà un bacio ad essa e si arrampica sul letto, coricandosi accanto a lui. Sta attenta a non toccare nulla. Si addormenta poco dopo.
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<Elena tesoro, andiamo a fare i compiti> le dico. Si stropiccia gli occhi, poi si solleva, guarda ancora una volta l'amico di mio cugino e poi balza giù. Ci mettiamo in un tavolo, ci impieghiamo poco, poi la porto al parco a prendere aria. Dopo un po', consapevole che dovrà tornare a breve a casa, decide di tornare su e salutare Lauro. accontento. <Vuoi che rimanga con lei stanotte?> mi dice Edo, mentre lei parla con il suo amico. Annuisco. <So che vi siete "lasciati" perché lui ha fatto lo stronzo e il puttaniere come sempre, ma ci tiene tanto a te, so anche che non ci credi e hai ragione. Almeno, se non vuoi starci insieme, rimanete buoni amici> mi dice. <Io...Edo io sono innamorata di lui, che mi piaccia o no, sarà così per un po'. So anche che non sarebbe una relazione sana, che io sarei costantemente cornificata o soffrirei e lui continuerebbe la sua vita come se fosse tutto okay> sussurro. Mia sorella gli sta accarezzando una guancia. <Mi risulta pure difficile stargli lontano. Quando si sveglierà mi troverà con lui ma poi fine> mento. A lui, a me stessa, alle pareti di quell'ospedale che assorbono la mia bugia. Annuisce poco convinto: mi conosce come le sue tasche. <Ele andiamo a casa che ordiniamo la pizza> chiama mia sorella, che appena sente la parola "pizza" dà un bacio al dormiente ed esce schizzando. Edo ridacchia e va via con lei. Mi siedo nella sedia accanto al suo letto, prima prendendo il mio zaino e tirando fuori un quaderno a caso: l'etichetta dice "matematica". Sbuffo e poi scelgo degli esercizi. Alle 9 il mio stomaco brontola, così decido di scendere al bar a prendere qualcosa di veloce, poi torno su e trovo un'infermiera che sta visitando Lauro. <Sei sua sorella?> chiede. Annuisco. <Suo fratello sta bene, sta ancora dormendo, ma presto si sveglierà, crediamo anche già stanotte. Ci avvisi per favore, nel caso> mi istruisce, mentre cambia la flebo. Annuisco, rioccupando il mio posto e prendendo un altro quaderno, che stavolta mi fa sorridere. Inizio a ripetere italiano, sicura e decisa, veloce, quando la mano di Lauro si muove. <Lauro?> dico, bloccando la mia cantilena. Mugugna. <'Ndo cazzo sto?> chiede. Chiamo l'infermiera di prima, che lo controlla, poi chiama un medico: gli fanno domande, prelevano sangue, mentre io continuo a leggere imperterrita. Sono stanca, distrutta, ma meglio di vedere trasfusioni di sangue e altre cose così, preferisco fisica. Appena finisce tutta quella trafila a sfondo scientifico e medico, rimaniamo soli: è tardi, sono le 23.30 ed io dovrò passare la notte qua. <Senti scusa> riprova, riattacca la solita cantilena, rimette in ballo le droghe, l'alcol, le distrazioni, la sua infanzia. Ascolto zitta, ferma, fredda. Vorrei andarmene: ma chi me lo ha fatto fare? Sto cedendo. E non voglio. Merito di più, molto di più.
Le mie gambe si muovono da sole, anzi, si muovono mosse dal mio inconscio che vuole semplicemente tornare nel suo luogo di appartenenza, come la definizione di gravità di Aristotele: il filosofo greco sosteneva che ogni cosa avesse un posto nel mondo e se la si allontanava da esso, quando poi la su lasciava cadere, essa, da sola, tornava al suo posto. Fece l'esempio di un sasso lanciato, senza particolare forza, per terra, che ritorna nella sua posizione d'origine. Io e Lauro eravamo così.
Mi buttai tra le sue braccia, lo guardai in viso, notando solo in quel momento le sue occhiaie, il suo colorito pallido, dei graffi. Li accarezzai. Sussultò, ma mi lasciò fare. Percorsi la linea delle sue spalle, delle sue braccia e del suo petto con le dita, arrivando al fianco, fasciato. Continuai a guardarlo negli occhi, velati da lacrime quasi invisibili. Gli sfiorai la fasciatura, delicatamente, poi ripercorsi il tragitto con le mie labbra, baciando ogni singola cicatrice e facendola mia come se poi, così, si sarebbe trasferita nel mio corpo come per magia. Lauro piangeva, in silenzio mi guardava. <Ti amo> mormorò al buio. Tornai vicino al suo viso. Non risposi, mentre continuò a piangere e la fontana dai suoi occhi sgorgava tra le mie guance. <Ti amo, non l'ho mai detto a nessuna e sono un coglione vigliacco perché volevo proteggerti quando in realtà non ho fatto altro che ferirti> continuò. Gli asciugai le lacrime, accarezzandogli le guance ossute e pasticciate. Mi diede dei baci sulle dita, poi sulla fronte e sui capelli. Ci guardammo qualche istante, poi, dopo un po' di tempo, ci baciammo. Mi sentivo come la pietra di Aristotele nel suo punto fisso, nel suo posto nel mondo: completa e giusta.

Leggenda al quartiere/Achille LauroDove le storie prendono vita. Scoprilo ora