II

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Alla fine iniziai ad imparare lo spagnolo, poco a poco, Martìn non era male come insegnante. Su molte altre cose era pessimo ed era peggio di una pensionata in menopausa, ad esempio ricordo come andava fuori di testa quando sporcavo lo specchio disegnandoci sopra con le dita quando si appannava dopo la doccia, diventava terribilmente stressante. Però si stava rivelando meno figlio di puttana di quello che credevo, gestiva i miei terrori notturni con estrema cautela e mi diede per molto tempo un tetto sopra la testa e del cibo con cui sopravvivere, cucinava anche discretamente, non morii avvelenata per cui posso dedurre che fosse cibo buono. Restavo li cercando di superare la perdita di mia madre che grattugiava il mio cuore di notte in notte, ogni mattina quando mi svegliavo e ricevevo uno schiaffo in faccia dalla realtà rendendomi conto che lei non c'era più e che quello non era il nostro letto, ma il divano di Martìn. Restavo li e vivevo solo perché sapevo che io e lui avremmo trovato il mio papà, si, lo stesso uomo che non si era mai degnato di guardarsi indietro e cercarmi, io lo avrei trovato per sbatterglielo in faccia. E in fondo, in cuor mio, speravo anche che, dopo averlo insultato e avergli dato del pezzo di merda, avrei potuto abbracciarlo e sentire di avere un papà. Non sapevo chi lui fosse o da dove potessimo iniziare a cercare ma già il fatto che esistesse e fosse vivo per me era un balsamo per i sentimenti.
Martìn non amava parlare dei miei genitori, in quelle settimane che trascorsi nel suo appartamento io non seppi mai di più di quello che mi aveva detto la prima sera sul divano. A volte lo ripeteva, che mia madre era una grande donna e che le assomigliavo, che mio padre era un uomo elegante e bello, e che insieme facevano rapine da sballo. Era tutto quello che mi era permesso sapere ed era tutto quello che lui sembrava sapere, ci misi un po' ad accettarlo ma poi capii che non era una cosa assurda il fatto che anche lui potesse soffrire per la morte di mamma e per trovarsi con me che gliela ricordavo sotto gli occhi, ogni giorno.
In ogni caso quel mese non lo trovai, e nemmeno il mese successivo. Martìn diceva che stava studiando il piano giusto e che io prima avrei dovuto imparare lo spagnolo per un'occasione così importante, a me sembravano cazzate ma in quel momento lui era tutto ciò che avevo.
Durante le prime due settimane di convivenza lo mandai a fare in culo così tante volte che ora perdo il conto solo a pensarci, lui nella vita voleva essere la "prima donna", prima lui e poi io, sempre o almeno così sembrava a me. Sembrava che mi odiasse e potete star certi che l'odio era reciproco, a volte non ero sicura se mi stesse solo ingannando per poi sbattermi in mezzo alla strada oppure se davvero a me ci tenesse e mi sostenesse in quella pazzia per cui io vivevo. Ora che vi parlo invece posso mettere la mano sul fuoco che io e lui ci aiutammo a non cadere nel baratro, a vicenda, come fratelli, tra un litigio e l'altro. Infondo che sarebbe stato un mese o due io da mio papà ci sarei arrivata, precisa davanti a lui e con uno spagnolo impeccabile. Quella notte in cui mi addormentai sul divano fra le lacrime si trasformò in un mese, in cui cercai di dimostrarmi più forte di quello che ero, una leonessa che ha appena perso il figlio ma che prende in mano la situazione nonostante di notte versi le lacrime sul suo corpicino, quella ero io. Eppure in quel mese io avevo avuto una parvenza di vita che fino a quel momento avevo solo assaggiato. Quel tipo di vita in cui ti svegli il mattino e sai che non dovrai scappare da nessuno, insomma quella vita da vestaglia, latte caldo, biscotti e un buon libro. Mi stavo riprendendo, mi sembrava che avrei potuto stare bene li, da qualche parte, c'era la possibilità che io potessi vivere come una ragazza di quasi diciassette anni con un padre e uno zio che ama le vestaglie. Si quello era quello che avrei voluto. Ma poi ci pensò il destino a darmi una sincera svegliata.

"Berenice cazzo hai delle ciabatte da collezione o potresti indossarle qualche volta? Guarda qui avevo appena pulito il pavimento" Sbuffò Martìn scendendo le scale a passi pesanti con la vestaglia da notte che fluttuava alle sue spalle, sventolai le gambe mangiando il panino alla marmellata "Andiamo vedi di levarti quella scopa che tieni costantemente nel culo" dissi girandomi a testa in giù come uno di quegli animali che se ne stanno appesi sugli alberi "È mattina presto e se servirà a farti stare zitto più tardi pulirò per terra" lui sbuffò prendendo una tazza dalla credenza "Sai di cosa avresti bisogno?" Gli domandai divertita mentre lui armeggiava con l'acqua per il té "Illuminami" disse scostandosi il ciuffo castano dalla fronte "Di scopare" bisbigliai prima di scoppiare a ridere, lui però non rise, ripresi fiato lasciandomi cadere lungo il divano "Andiamo stavo scherzando" borbottai "O magari no" aggiunsi tornando a ridere. Prenderlo in giro era uno dei miei hobby più quotati. Mi fulminò con i suoi occhi chiari intingendo la bustina di té nella tazza "Tu invece avresti bisogno di uno psichiatra bambina" alzai un terzo dito in modo teatrale "Andiamo io non scherzo, esci da qui! Vai a farti una serata mondana! Incontra qualcuno! Una donna, un uomo CHI VUOI! Prometto che se mi lasci da sola una serata non ti distruggo la casa" dissi mentre ero intenta a scovare i miei calzini tra i cuscini del divano "Berenice è da forse due anni che non esco per eventi mondani, non sarai certo tu a farmi cambiare idea" commentò con poco brio, mi aspettavo un po' più di sarcasmo da parte sua. Alzai le spalle "Stavo solo scherzando" commentai alzandomi e andando ad attaccare una canzone allo stereo. Se c'era una cosa in cui concordavamo era che una vita in silenzio non avrebbe potuto esistere mai. Poi bevvi una tisana alla frutta (che scoprii essere molto buona) mentre cercava di farmi imparare qualche vocabolo in spagnolo come: gallina, mucca, capra....ebbene si stavamo facendo la fattoria. Ve l'ho detto, era la qualità di vita migliore che avessi mai avuto fino a quel momento. Potrei azzardare e dire che stavo bene, che in quel momento con la tisana nella tazza e il quaderno di spagnolo davanti mentre una canzone degli anni '90 risuonava tra le pareti di quella casa, io in quel momento stavo bene.
Chiusi il quaderno in uno schiocco "Se non ti dispiace io vado a purificare la mia anima con un bagno caldo" mi alzai"Non finire l'acqua calda" mi intimò sventolando il segnalibro del libro che stava leggendo, gli diedi due pacche sulle spalle e me ne andai. Recuperai alcuni dei miei vestiti dall'unico cassetto che mi era stato concesso e salii di sopra canticchiando una delle canzoni che piacevano a mia madre.
Potete immaginare la mia delusione quando arrivai in bagno e l'acqua non partiva, la doccia non funzionava. Pregustavo quella doccia da quando avevo aperto gli occhi quella mattina. Cazzo. Fissavo il mio riflesso deluso nello specchio mentre i miei occhi ambrati da cerbiatta correvano freneticamente sulla mia figura pallida e patetica, con i capelli mossi e castani che mi ricadevano stanchi sulle spalle magre, forse Martín aveva ragione sul dirmi che dovevo mangiare di più, chiunque avrebbe potuto buttarmi giù con un soffio. Smisi di autocommiserarmi e cominciai ad armeggiare con il telefono della doccia con cui cominciai una sorta di corpo a corpo piuttosto impegnativo, smisi di provarci quando mi pizzicai il dito "MARTÌN!" Urlai recuperando l'accappatoio "LA TUA DOCCIA DEL CAZZO HA DECISO DI NON FUNZIONARE" Mi avvolsi come uno strudel nell'accappatoio in microfibra viola, cose di classe per me. Mai viste prima. Sbuffai rumorosamente "MARTÌN CAZZO! VOGLIO FARE LA DOCCIA!" Sentii dei tonfi di sotto "Che palle" mi lamentai legando la cintura di stoffa all'accappatoio e raccogliendo i capelli.
"MARTÌN!" Continuai ad urlare scendendo le scale e finalmente lo sentii. Stava urlando ma di sicuro non contro di me, non aveva motivi per darmi del "figlio di puttana". Altri rumori sordi. Emisi una sorta di ringhio per la frustrazione passandomi le mani sul viso "Martìn la tua doc-" mi fermai non appena vidi che stava piangendo, stava piangendo appoggiato alla spalla di un uomo. Uno sconosciuto in casa e io ero in accappatoio. Rimasi pietrificata per qualche secondo.
Non sapevo perché ci fosse uno sconosciuto in casa nostra, o meglio in casa sua, ma non avevo idea del perché Martìn stesse piangendo, nonostante tutto mi faceva male pensare che stesse così male e non me ne avesse mai parlato. Parlavo sempre e solo io, di come desiderassi mio padre, lo assillavo per ciò che mi raccontasse di loro e in quel momento sentii i sensi di colpa trafiggermi come proiettili. Pensai di essere stata egoista anche se avevo mille buone ragioni per esserlo, non avevo saputo ascoltarlo. In quel momento mi resi conto di volergli bene.
"ahm" esitai traballando sui piedi scalzi mentre i due non accennavano a staccarsi dall'abbraccio. Poi lui alzò gli occhi e mi guardò da sopra la spalla dello sconosciuto, si ricompose quasi immediatamente "La doccia" borbottai "Non scende l'acqua" feci un passo indietro alzando le mani "Se non è buon momento posso sempre farla dopo" risi nervosa "Anzi vado, vado a rivestirmi" mormorai rapida prima che potesse dirmi qualsiasi cosa. I due finalmente si allontanarono, l'altro uomo era poco più alto di Martìn, vestito elegante, un uomo alla vecchia maniera. Aveva degli occhiali neri dalla montatura spessa e insolita e una barba folta castana come i capelli che giacevano leggermente scomposti sulla fronte, se ne stava li impettito in piedi in mezzo al nostro salotto con le mani in mano mentre se le strofinava nervoso e gli occhi lucidi che si muovevano repentinamente. Mi guardava come avesse visto un fantasma. Alzai una mano in segno di saluto "Berenice ti sembra il modo di scendere? E poi santo cielo sei di nuovo scalza" borbottò Martìn passandosi le mani sul viso cercando di spezzare la tensione che si era creata in quel momento.
Quello era il volto del secondo uomo che mi avrebbe portata al cambiamento più grande della mia vita. Il Professore. Certo non fu il modo in cui mi aspettavo di conoscere colui che per mesi poi sarebbe stato una parte fondamentale della mia vita, non posso negare che fu molto strano. Avrei preferito essere vestita di sicuro, più in forma e magari che tutto non cambiasse così in fretta.
"Io sono" iniziò aggiustandosi gli occhiali con l'indice "io sono il Professore, chiamami così" ora non posso negare che in quel momento mi venne da ridere ma non lo feci, Martín invece fece una risatina sommessa stropicciandosi gli occhi. Annuii e basta "Io sono Berenice sono...un'amica di Martìn" dissi guardandolo e cercando cenni di assenso che puntualmente non arrivarono, lui era provato e fissava il vuoto come solo un folle avrebbe fatto "Berenice fai le valigie" disse poi e quello fu un colpo basso come quando stai facendo una gara di corsa e inciampi pochi metri prima del traguardo.
"Un momento" disse il professore "La ragazzina avrà quindic'anni Martìn" bisbigliò come per non farsi sentire da me, ma per sua grande sfortuna lo sentii forte e chiaro, poi continuò e per una seconda volta capii che tutto stava per cambiare "Non possiamo portarla a rapinare la banca di Spagna, dalla banca di Spagna non si esce vivi" gli intimò. Parlavano spagnolo ma ormai avevo imparato a cavarmela, io imparo in fretta. Martìn alzò le spalle mentre io mi guardavo in giro, che cazzo di casino aveva combinato "Cosa proponi Sergio?" Gli domandò divertito "La facciamo vivere da sola qui magari? Mi sembra chiaro che debba venire con noi che a te piaccia o no" il resto non lo sentii perché in quel momento vedevo tutto quello che avevo programmato crollare davanti ai miei occhi. Una rapina alla banca di Spagna avrebbe richiesto mesi e se dovevamo partire, non avremmo cercato mio padre, e io, io cosa avrei fatto? Me ne sarei stata ad aspettare che uscissero da lì nelle bare? Lui e il Professore. Mi avvicinai a Martìn afferrandogli il braccio "Ma che dici" gli sussurrai "Noi abbiamo un piano, dobbiamo trovare papà" ma lui non mi rispose "O prendi anche la ragazzina o io non vengo" disse rivolto al Professore che continuava a rigirarsi le mani nelle mani nervosamente "Voi siete impazziti" dissi "Io devo trovare mio padre non verrò a rapinare la banca di Spagna e non verrà neanche Martìn quindi se ne vada" dissi con le lacrime che mi imperlavano gli occhi, lui tese una mano verso di me "Un momento"-"No se ne vada" ripetei ferma, tutto stava tremando attorno a me, c'era in corso un terremoto magnitudo cinque "Berenice vai di sopra" mi intimò Martìn "Ora ne parlaremo civilmente" risi istericamente "Civilmente? Mi sono fidata di te non farmelo rimpiangere, dobbiamo trovare papà non è così?" Lui strizzò gli occhi come se attorno a lui ci fosse troppa confusione "Ho detto di andare di sopra cazzo" disse nervoso spingendomi lievemente "Ti prego Martìn" lo supplicai opponendomi "Vuoi andare o no a vestirti cazzo?" Canticchiò nervoso "L'adulto sono io Berenice, so cos'è giusto fare" mi chiedevo come fosse possibile sentire tanta rabbia verso una persona a cui tenevo. Camminai a pugni stretti verso le scale sotto gli occhi attenti del Professore "Vaffanculo Martìn io con te non ci vengo, devo cercare mio padre" e così me ne andai sbattendo i piedi. La magra consolazione fu che la doccia aveva ripreso a funzionare.
Piansi a lungo sotto la doccia, le lacrime si confondevamo con l'acqua come le classiche scene da romanzo con il vapore che mi avvolgeva. Non volevo nemmeno sapere cosa stava succedendo di sotto, volevo andarmene ma sapevo bene che da sola non sarei potuta andare da nessuna parte. Ero in quel fastidioso limbo in cui non sarei mai voluta essere. Infilai la mia tuta e raccolsi i capelli frettolosamente poi dopo aver fatto un bel respiro capii che era il momento di tornare di sotto e di fare la donna. Ero come una furia. Uscii dal bagno con la fronte leggermente imperlata ancora dal vapore e fuori ad aspettarmi c'era Martìn a braccia conserte stancamente appoggiato al muro come se anche lui avesse appena finito di piangere.

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