X

556 23 0
                                    

Mi ero messa a canticchiare con le labbra serrate una di quelle canzoni che erano in voga negli anni '90, una di quelle che io e Martìn ascoltavamo facendo colazione con le ciambelle glassate del discount, prima di tutto questo. Prima che sapessi cosa provava lui, prima che scoprissi di essere un peso e prima che capissi che avevo sbagliato tutto. Prima, prima, prima. Come se potessi cambiare le cose, gli umani pensano sempre così fottutamente tanto al "prima", perché siamo dotati di questa straordinaria e maledetta capacità di pensare a come sarebbero le cose nel presente se nel prima fossero andate diversamente. Se mamma non fosse riuscita a dirmi della banconota, sarei andata da una delle sue socie e magari ora non starei seriamente pensando di farla finita e fottere tutti, ma per carità ancora non era una cosa decisa. Era una cosa che mi frullava per la testa, così, magari sarei arrivata a un momento in cui mi sarei chiesta "E cosa sarebbe successo se prima avessi deciso di fottere tutti?".
Svoltai l'angolo mandando avanti  qualche donna che strascicava gli scarponi a terra affaticata "Forza forza" le incitai ma ero stanca. Stanca e distratta.
Poi qualcosa arrivò come un proiettile di un fucile ad aria compressa, squarciò l'aria, grida degli ostaggi che trattenevano il fiato, quasi percepivo i loro cuori battere e fare lo stesso rumore degli zoccoli di un cavallo al trotto. Un rumore metallico forte, un tuono prima di una tempesta. L'aria si fece carica di tensione di colpo. Da 0 a 100. Come quando si prevede l'arrivo di una tempesta e l'anidride carbonica ti entra in circolo come una Ferrari, rombando il motore. Le venticinque donne che mi stavano seguendo nel corridoio trattennero il fiato e Carla allungò una mano istintivamente verso la mia spalla. D'impeto strinsi a me il fucile cominciando a guardarmi in giro come fa un cane da tartufo "State calme!" Esclamai. Non ci fu verso altre urla, altri gemiti, di nuovo quel clangore. Aumentai il passo "Seguitemi state calme, sta andando tutto bene ne sono sicura" sudavano freddo e le loro casse toraciche si alzavano impetuosamente sotto il rosso delle tute.
Distinsi la voce di Nairobi urlare, Denver, Stoccolma, sembrava di stare in uno stadio.
"VENITE NON ABBIATE PAURA" Urlai e nel frattempo come una lepre scattai in avanti quasi inciampando.
"PALERMO! MERDA DENVER FERMALO!" Era Nairobi. Corsi quasi dimenticandomi della coda che dovevo portarmi dietro, sentivo scariche percorrermi la spina dorsale.
E poi arrivai nell'atrio. Bocchieggiai mentre la scena davanti a me continuava come la pellicola di un film, velocemente, indipendentemente da come me ne stavo li a guardare. Gli ostaggi che si ritraevano piangendo l'uno sulla spalle degli altri mentre quella poca fiducia che potevamo aver ottenuto ci scivolava fra le dita come sabbia. Le urla di Palermo e di uno dei membri della squadra speciale del governatore squarciavano l'aria, era colpevole di qualsiasi cosa a cui in quel momento avrei mai potuto pensare. Picchiava quell'uomo con una violenza tale da farmi sussultare a ogni colpo. Ogni colpo dato con il suo bastone improvvisato del cazzo. Colpi che a volte non andavano a segno a causa della vista danneggiata, su cui il destino aveva agito in modo che quasi sembrava irreparabile. Eppure in quel momento notai che a quanto sembrava ci vedeva forse meglio di quanto si sarebbe meritato.
Si provocavano a vicenda "Rettile dalla coda corta" urlava acido Martìn, "Ammazzami figlio di puttana" rispondeva l'altro. Una guerra che sembrava non avere fine, come i freestyle del venerdì sera dei rapper americani.
Io non conoscevo quel Martìn. Non era quella la persona di cui si fidava mia madre, non era quella la persona che completava le frasi di mio padre. Quella era una storpiatura causata dal dolore, dalla cattiveria di cui si era gonfiato rifiutando di vivere il suo dolore. Perché aveva paura. Lui era più cagasotto di me, era quella la realtà.
Agii d'impulso, incrociai i grandi occhi profondi di Nairobi e mi scaraventai dalla scale mentre Denver a passi pesanti cercava di distogliere Martìn dal suo atto di cattiveria. Le urla attraversavano violentemente l'aria e arrivavano a me colpendomi come uno schiaffo "PALERMO CHE CAZZO FAI" urlai e mi avvicinai, quasi senza volerlo, d'impulso, come se avessi delle molle al posto delle gambe. Stoccolma gridò di stare indietro. Era una granata, peggio, una di quelle bombe artigianali fatte coi chiodi. Era un pericolo.
Un grosso nodo mi salii in gola, magari per il viso tumefatto dell'ostaggio, o forse per quell'alone scuro che sembrava avvolgere lo stesso uomo che aveva bevuto le tisane alla frutta con me.
"PALERMO" urlai con gli occhi lucidi dove si riflettevano i lampadari della banca. Mi avvicinai e, come quando ti avvicini al fuoco e ti bruci, mi arrivò un colpo dritto sullo zigomo. Mentre Denver lo tirava indietro e lui si dimenava "FIGLIO DI PUTTANA UCCIDIMI EH DAI FORZA FIGLIO DI PUTTANA" continuava così, in un continuo loop, l'agente si sporgeva in avanti con il suo volto tumefatto dai lineamenti spigolosi. Istintivamente mi portai le mani al viso e dai miei occhi cadde una lacrima, Palermo nemmeno se ne accorse. Non parlai per i successivi cinque secondi, Stoccolma mi afferrò quasi subito un braccio trascinandomi verso di lei per vedere se mi ero ferita. Mi ero ferita più dentro di quanto non avessi fatto fuori.
Non l'aveva fatto in modo conscio, ne ero certa, non voleva farmi del male. Ero capitata nel posto sbagliato al momento sbagliato. E quell'unico momento sbagliato, quel colpo che Martìn inconsciamente mi aveva fatto arrivare sul mio sottile zigomo, mi aprii l'ennesima finestra sulla realtà. La mia sindrome del Titanic prese il primo iceberg con un sonoro bang un clangore che faceva male alle orecchie.
Sentii già lo zigomo gonfiarsi sotto i miei polpastrelli. Mi inumidii le labbra e vidi Nairobi porgermi una mano sottile impreziosita dai suoi anelli, la afferrai scuotendo la testa mentre Denver continuava a trascinarlo via con imprecazioni continue.
"Ma che cazzo gli è preso" sussurrai come per rendermi conto di quello che avevo appena visto.
Narcisista, affamato di potere, di sapere, Palermo era così.
Stoccolma mi tranquillizzò dicendomi che sarebbe restata con gli ostaggi e la ringraziai abbassando lo sguardo mentre notavo che le donne che avevo lasciato nel corridoio erano arrivate nell'atrio e si stringevano attaccate alla carta da parati come scarafaggi. Mi allontanai da lì con lo zigomo tinto di cremisi, stringendo la mano attorno a quella di Nairobi supplicandola di non lasciarmi, non in quel momento in cui credevo di avere solo lei, in cui non avevo nemmeno me, mi ero persa dentro me, non so se nella pancia o nella testa ma non sapevo dove fossi.
Quella rapina non mi stava appagando, mi stava frammentando pezzo per pezzo.
E il Professore da fuori ci guardava, e per poco non smise di respirare quando ebbe la conferma che conoscevo il loro segreto d'oro. Nonostante in cuor suo lo sapesse già, quando hai la conferma di una cosa nella quale speri fino all'ultimo che non sia così e come se affondassi nel cemento a presa rapida.

Ay, mi niña -Casa de papel fanfiction-Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora