Lo conoscete quel detto: l'abito non fa il monaco? Significa che le persone non si devono giudicare precipitosamente solo per le apparenze. Solitamente perché appaiono in un modo e poi sono un'altra persona rispetto a quello che sembrano. Quel detto tutt'ora mi risuona nelle pareti della mente in un eco continuo. Mi pare ancora di sentire Nairobi sussurrarmelo all'orecchio mentre il vapore del bagno ci avvolgeva come fa il velo con una sposa. Non sapevo se quel detto calzasse a pennello con ciò che Nairobi puntava a farmi capire. Viviamo in un mondo di maschere e ciò che capii quella sera fu che nonostante le maschere di Dalì e i fucili io non avrei comunque fatto paura a nessuno, perché ero comunque una ragazzina che credeva ben poco in quello che stava facendo. E se io per prima non credevo in ciò che stavo diventando, addirittura mi incolpavo per quello che stavo diventando, gli ostaggi e la Spagna intera non mi avrebbero mai presa sul serio. Mai.
Così quella sera, come una delle tante, dopo aver cenato e aiutato a sparecchiare avevo deciso di buttarmi sotto al getto bollente della doccia del monastero mentre i cappuccini intonavano la preghiera serale nell'altra ala del polveroso edificio. Sapete, quella sera mi fece sorridere pensare a come le dinamiche di quel gruppo stessero cambiando di ora in ora, a ogni lezione, a ogni rivelazione magica del Professore. Quasi quasi sembrava che non mi odiassero più, che un po' di quel rancore fosse evaporato. Mentre il colpo si avvicinava, Martìn e il Professore passavano giorno e notte chini sui fogli alla luce fioca delle lampade del milleottocento, pensavo a questo genere di cose e a come mi sarei sentita una volta dentro, a quanta paura avrei avuto, a come qualsiasi cosa che non fosse la mia vita sarebbe caduta in secondo piano. L'ho già detto che credevo fosse un suicidio vero? Eppure ci stavo andando incontro a braccia aperte.
"Ho pensato a una cosa" disse Nairobi irrompendo nel bagno dove io mi ero appena avvolta in un asciugamano dal tessuto ispido, mi strinsi le braccia al petto mentre lei si sedeva con tranquillità sul lavandino "Che cazzo fai?" Le domandai tra il divertito e lo sconvolto. Non ero abituata a gente che irrompesse nel bagno mentre mi facevo la doccia. Non ero abituata ad avere una donna che fosse un' amica e non mia madre.
Nairobi imperterrita continuò a mangiare qualsiasi cosa si trovasse stretta tra l'indice e il pollice, sembrava formaggio "Tu non puoi entrare così" intervenne allungando un braccio verso di me. Feci una risatina seccata "Cos'ho di sbagliato? Così?" Borbottai facendole il verso mentre mi strofinavo i capelli umidicci. Lei si leccò un dito quando ebbe finito la sua pietanza e si spinse giù dal lavandino, la fermai prima che potesse iniziare "Anzi non lo voglio sapere, voglio solo andare a letto" lei posò una mano calda e olivastra sulla mia spalla magra e candida e mi guardò con uno sguardo materno che non credevo avrebbe mai potuto assumere "Senti ragazzina, stai facendo tutto alla perfezione" cominciò un elenco alzando le dita smaltate dell'altra mano "Hai imparato a sparare, a togliere microfoni dalle carcasse dei maiali, a fare squadra" disse cercando i miei occhi con i suoi. Cercai di divincolarmi, volevo solo andare a prendere un po' d'aria e poi andare a dormire, le giornate piano piano si stavano allungando. Allungai anche io una mano verso di lei e gliela posai sulla spalla coperta da una maglietta leopardata decisamente pacchiana "Nairobi" tentai "No no no Giacarta stammi a sentire okay?" Roteò gli occhi come solo lei sapeva fare "Nonostante tutto io ci tengo a te, sai dopo che senti una persona russare tutte le notti a fianco al tuo orecchio cominci a tenerci" disse con sarcasmo facendo ronzare un dito nella zona del suo orecchio. Non era vero che russavo. Sbuffai e cercai di andare verso il lavandino per lavarmi i denti. Non mi andava di starla a sentire. Ma lei nonostante tutto ricominciò, testarda Nairobi "C'è una cosa che non si può imparare amore mio" disse guardando i nostri riflessi distorti nello specchio crepato e macchiato. I suoi capelli corvini che le cadevano morbidi sulle spalle, gli occhi grandi e profondi che mi guardavano con la stessa premura di una madre "Il Professore ci ha sempre definito come la resistenza" si avvicinò a me sistemandomi i capelli umidi dietro le orecchie "E io ci ho sempre creduto, così come Helsinki, Denver, Tokyo" allargò le braccia prima di farle cadere lungo al corpo "E ora le resistenza c'è perché ci crediamo, una cosa esiste solo quando ci credi" non capivo dove volesse arrivare o perché si stesse cimentando a parlare con me, come se ci tenesse realmente. Le dinamiche di gruppo non hanno mai smesso di stupirmi. Cominciai a spazzolarmi i denti senza togliere lo sguardo dalle nostre figure offuscate dal vetro appannato. "Giacarta se tu non credi in una cosa questa cessa di esistere, se tu non credi in quello che stiamo per fare amore mio" mi posò le mani smaltate sulle spalle "Nessuno ti crederà, non sarai una rapinatrice perché avrai un M16 e una maschera di Dalì" aveva ragione. Io non credevo e non volevo credere a quello che stavo diventando. Annuii debolmente "Quindi cazzo ragazza" si avvicinò al mio orecchio "Devi tirare fuori i coglioni e far vedere che anche se hai sedic'anni hai più coglioni di tutti loro messi assieme" disse girando un dito puntato sopra le nostre teste. Mi risciacquai la bocca "Okay okay" dissi, lei tese le mani davanti a sè "No no no tesoro" mi afferrò il viso con una stretta piuttosto forte "Non ne sei convinta, tu dovrai essere convinta quando entreremo li dentro" aveva un tono di voce caldo, rassicurante. "Okay" ripetei divertita "Giacarta hai capito chi sei? Sei una fica da paura ecco cosa sei, ed entrerai li dentro credendo nei tuoi principi e spaccherai i culi" mi guardò nei miei occhi dalle sfumature color ambra "E fanculo Palermo, fanculo chiunque, devi credere in quello che fai" mi baciò con forza sulla fronte "Perché sei qui eh tesoro?" Mi chiese sorridendo cercando di tirarmi fuori dalla fossa che mi stavo scavando. Nairobi mi aveva dato tutto quello che avrebbe potuto darmi, lei aveva sempre creduto in me ed è proprio questo che fece di lei una grande donna. Sempre. Sospirai e decisi di smettere di mentire, a me, a lei, al mio riflesso "Sono qui perché voglio rendere fiera la mia mamma e trovare mio padre, e voglio spaccare i culi" le dissi e lo ammetto, stavo per piangere ma mi trattenni, sentivo di piangere troppo spesso. Tuttavia anche lei aveva gli occhi che le brillavano mentre io mi avvicinavo a lei ricercando un abbraccio "Si piccola, entreremo li e ruberemo lasciandoli tutti a bocca aperta" mi afferrò la testa fra le mani facendo si che la guardassi "Tutti saranno fieri di te, tu per prima, smettila di avere paura e dillo: sono una grande donna" deglutii e non se se a voi capita mai, ma sentii un forte afflusso di sangue alla testa e alle guance e sentii di volerle bene. Di volergliene in modo sincero. Lei mi incitò a ripetere "Sono una grande donna" dissi fissando il mio riflesso e cercando di convincermi che non stavo ripetendo come un pappagallo ma che lo pensavo davvero. Che ero responsabile delle mie scelte e di ciò che sarebbe successo nella banca. "sono una grande donna" dissi e presa dall'euforia risi. L'euforia è così un bel sentimento, ti senti potente, è una sensazione di benessere con tendenza all'ottimismo e all'ilarità, e quando non si riesce a provarla più le persone ne sentono così tanto il bisogno da assumerla con l'eroina. Mi sentii grata di riuscire ancora a provarla.
Il vapore ci si stava depositando addosso come una seconda pelle, strinsi Nairobi forte a me di mia iniziativa "Ah ragazza" sussurrò lei "Ti voglio bene" borbottai contro il suo petto ed era la prima persona a cui lo dicevo la dentro se escludiamo Martìn. Lei mi passò una mano con delicatezza sulla nuca "Qualcuno mi disse che l'abito non fa il monaco" e quella frase, il tono con cui lo disse, la spensieratezza, magari anche l'esempio sbagliato. Mi rimasero impresse fino ad ora, ora che ve lo sto dicendo, lo ricordo ancora come se Nairobi me lo stesse dicendo adesso nel bagno sudicio del monastero "Non scordartelo okay?" Concluse sussurrandomelo fra i capelli. Poi mi diede una pacca sulla schiena e si allontanò di qualche passo "Andiamo vestiti" mi disse con un sorriso prima di voltarsi per uscire dal bagno. Quella sera fu una delle poche sere in cui mi sentii bene. Vi ho già parlato di quel senso di appartenenza che tutti provavano nello stare li, ecco, non avrei mai potuto sentirmi così nemmeno lontanamente, ma almeno cominciavo a sentire di far parte di qualcosa. Cominciavo a capire cosa volesse dire avere persone che magari non ti vanno a genio ma a cui tieni infondo. Cominciavo a sentire di nuovo che qualcuno a me ci teneva e magari se me ne fossi andata avrebbe sentito la mancanza. Piano piano il vuoto che era stato lasciato da mamma si stava riempiendo,e pensate: non avevo nemmeno trovato papà.
"Nairobi" la chiamai mentre mi avvolsi meglio nell'asciugamano per evitare che cadesse clamorosamente lasciandomi scoperta. Lei portò lo sguardo su di me mentre teneva una mano sul pomello della porta "Grazie" le dissi con tutta la sincerità a cui riuscivo a fare ricorso. Non sapevo perché mi avesse tenuta in considerazione tanto da irrompere nel bagno pur di assicurarsi che non sarei entrata nella banca come una mina vagante, ma in ogni caso, lei lo aveva fatto. Lei sorrise e poi senza aggiungere una parola uscì. Nairobi non mi avrebbe mai lasciato, con tutti i suoi difetti potevo star sicura che lei non mi avrebbe mai voltato le spalle.
Così quella sera me la ricordo bene, la passai ridendo con i due con cui condividevo la stanza. Soffocavo le risate contro il cuscino tanto da farmi lacrimare gli occhi. Fu uno dei miei momenti felici, io, Helsinki e Nairobi a parlare di cose normali che non comprendevano morte o responsabilità. Loro mi raccontavano aneddoti della loro vita e io spiegavo come funzionavano le cose in Italia, mi ricordo che ridevamo così tanto quando sbagliavo la pronuncia di qualche parola in spagnolo. Non so nemmeno quando mi addormentai, ubriaca di risate, sudata ma di un sudore che infondo ti fa sentire viva, con il cervello carico di ossigeno e le guance arrossate perché in quella stanza faceva caldo.
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Ay, mi niña -Casa de papel fanfiction-
Fanfic/cam·bia·mén·to/ Sostituzione o avvicendamento che riguarda in tutto o in parte la sostanza o l'aspetto di qualcosa o di qualcuno; La giovane Berenice Muccio aveva atteso per anni che la vita le aprisse un'uscita alternativa da ciò che lei e la madr...