XIV

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"HO BISOGNO CHE MI ASCOLTIATE" Urlai saltando a piedi pari l'ultimo gradino della scalinata che portava nell'atrio. Guardai i miei ostaggi, non era passato molto in realtà da quando li avevamo presi, alcuni sembravano essersi rassegnati a un destino che sarebbe stato tormentato dai flashback di quei giorni, altri non smettevano di tremare come topolini febbricitanti. E cosa ancor più rilevante: parlavano. Per noi non c'era nulla di peggiore agli ostaggi che socializzavano fra di loro fottendoci alle spalle coalizzandosi in organizzazioni criminali, pronti a diventare i nuovi Avangers. Ma alla fine anche se non lo avessero fatto loro lo avrei fatto io. Li guardai impugnando il fucile "La signorina Carla Rodriguez sta per partorire" annunciai e perlomeno riuscii a zittirli, si lanciarono sguardi indecifrabili da una fila all'altra "Dovrà uscire" continuai e poi Tokyo prese la parola affiancandomi e irrompendo come un missile da una finestra "QUINDI VOI METTETE LA MASCHERA E PRENDETE I FUCILI" Intimò alzando il tono puntando un dito verso la platea di ostaggi alla nostra sinistra, poi si voltò verso destra giocherellando con il ciondolo della chiave della vita che portava al collo "VOI SEGUITEMI" riusciva a incutere timore anche con una sola frase. L'espressione seria, i lineamenti dolci che acquistavano tratti duri quando le sue labbra stavano unite in una linea dritta. Io non penso facessi paura.
Incitai gli ostaggi ad alzarsi e muoversi per far si che una parte di loro andasse con i fucili sul tetto e una parte accompagnasse Carla nella sua uscita. Ero stata incaricata di occuparmene personalmente e sarebbe stata come l'uscita di Lady Gaga a uno dei suoi concerti. Passarono pochi minuti, Tokyo strattonò qualcuno staccandolo dal pavimento dove sembravano aver messo radici, e Carla giunse nella stanza seguita a ruota dalla signora Rosalia, la donna si aggrappava al braccio di Denver in modo morboso, ossessivo. Aveva paura di cadere, o di essere lasciata da sola. Non so nemmeno di cosa avesse paura, c'erano miliardi di motivi.
"BISOGNA ESSERE INCINTA PER USCIRE?" La voce di Pablo non suonò naturale, dal tono profondo passò a un tono più acuto e forzato e si ridusse a quasi un miagolio. Bella dimostrazione di coraggio. Tokyo si voltò come un lupo a caccia che ha sentito muoversi la sua prossima preda "Come dici?" Gli domandò alzando un sopracciglio, ed era una di quelle domande che non invitavano ad una risposta, ma Pablo non capì, non conosceva Tokyo "Perché ne fate uscire solo uno? Eh? Perché non dieci o quindici?" Continuò mentre riceveva gomitate nell'inguine da parte del suo vicino che gli intimava il silenzio. Sbuffai "Pablo lascia che ti spieghi una cosa" gli dissi rimanendo li dov'ero semplicemente muovendo una mano nella sua direzione dove lui si rigirava per terra come un pesce fuori dall'acqua "Non siamo in un aeroporto dove puoi uscire ed entrare come ti pare" lo fissai con i miei occhi ambrati abbassando lievemente il mento "Siamo in una fottuta trincea quindi taci" non mi stette a sentire e non seguì il mio consiglio. Con un tono sempre più acuto e incrinato riprese "La fate uscire perché è donna! Perché siete delle nazifemministe" roteai gli occhi, misogino, macista, maschilista, uno di quelli che pensa che il patriarcato sia soltanto frutto delle nostre menti malate da donne. Pablo poteva essere riassunto dicendo che in lui si trovava l'apoteosi dei luoghi comuni sull'uomo bianco occidentale.
"Mettiti a partorire e faremo uscire anche te" così lo liquidai e affiancai Denver per aiutare Carla che continuava a sudare grondando di goccioline lucide e salmastre. Lui però non sembrò volersi fermare, dovevo capirlo da subito che quell'individuo avrebbe portato solo a problemi "VOGLIONO UCCIDERCI!" Tokyo però era meno paziente di me. Sbuffò e abbandonò la sua coda di ostaggi a grandi falcate estraendo la pistola dalla fondina sulla coscia "Non vogliamo uccidere nessuno ma ammetto che mi stai provocando" gli disse piegandosi sulle ginocchia per abbassarsi al suo livello "Quindi vedi di tacere o morirai di sicuro" glielo sussurrò a un centimetro dal viso, ogni cosa Tokyo dicesse riusciva a risultare estrema seducente e ti faceva cacare sotto. Io e Tokyo non eravamo come si suol dire pappa e ciccia ma per un po' tra noi ci fu grande intesa, sempre che così si potessero definire quegli sguardi perforanti che lei mi lanciava e io accoglievo. Mi fissava sempre come se avesse paura che mandassi a puttane tutto ma infondo era fiera del lavoro che aveva fatto con me al monastero.
Quanto mi mancavano i tempi del monastero, i monaci, la marmellata all'albicocca e padre Antonio che allattava i capretti come fossero bambini.
Pablo si ritrasse come una chiocciola nel guscio in una giornata di pioggia, con il naso che gli si arricciava all'insù per il nervosismo. Tokyo gli tracciò il contorno del viso con la canna della pistola circondata dagli squittii degli altri ostaggi "Vedo che ci siamo capiti" gli disse e finalmente smise di fare obiezioni.
Ero euforica, friggevo come se mi trovassi in un calderone di olio bollente. Stava andando tutto liscio, gli ostaggi afferravano le loro armi finte dagli scatoloni che Helsinki portava tra le sue braccia possenti e avevano la maschera pronta ad essere abbassata sul viso. Lei sarebbe uscita e quando la polizia le avrebbe proposto un capitale pur di farla parlare lei indubbiamente non avrebbe rifiutato perché i suoi estrogeni la avrebbero fatta parlare per me anche senza soldi come ricompensa. Una volta che il mio nome e la mia età sarebbero stati sbandierati così come le mie intenzioni sarei stata fuori in meno di quarantott'ore. Prendevo grandi boccate d'aria giocherellando con i miei orecchini perlacei "Professore" avvicinai il ricetrasmettitore alle labbra senza staccare lo sguardo dalle mie pietre preziose "Tra pochi minuti saremo pronti" dissi osservando lo sciame di Dalì che si sistemava in prossimità del portone sotto lo sguardo attento di Denver ed Helsinki che si posizionava fiero vicino alla sua gallinella delle uova d'oro, la nostra mitragliatrice. La voce metallica del Professore venne sputata fuori dall'oggetto "Dovrà essere portata appena oltre al porticato" mi comunicò "Ricevuto" borbottai rosicchiandomi le labbra. Non parlò per qualche secondo denso di tensione "Fammi parlare con Palermo" feci un sospiro rassegnato e mi voltai in cerca del volto di Martìn che osservava la scena dondolando sui suoi scarponcini. Gli porsi l'apparecchio e lui con riluttanza lo prese nella sua mano. In quel momento, in quell'esatto momento mi tornò alla memoria come un boomerang quello che Martìn mi aveva promesso prima di entrare li: da li noi due ce ne saremmo andati vivi. Valeva ancora? Qualcosa di quello che aveva detto prima di entrare li valeva ancora? O era andato tutto perduto? Forse non era rimasto più nulla che ricordi sbiaditi di quella che credevo essere un'amicizia. E non una qualsiasi ma la prima amicizia che sentivo di avere da anni, la prima figura di riferimento che avevo avuto dopo la morte di mamma. Tutto perduto, tutto come fumo nelle mie mani. Da li forse me ne sarei andata, ma mai con lui.

Ay, mi niña -Casa de papel fanfiction-Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora