XI

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Odiai Palermo, odiai mio padre, odiai l'amore. Perché era senza dubbio colpa di un sentimento così irreversibile come l'amore se Martìn era diventato quello che era stato con me. L'amore.
Denver rapidamente si avvicinò a me prendendomi per le spalle chiedendomi se andasse tutto bene, se avessi avuto un mancamento e io, io ero incapace di rispondere. Dieci anni, dieci anni l'aveva amato e io avevo dovuto saperlo così in un secondo di odio.
Sentii chiaramente Nairobi dire "E ora non è più possibile fare nulla perché è morto, ti senti vuoto e o l'unica cosa che puoi fare è nasconderti dietro questi discorsi di merda perché sai bene di esserti condannato per sempre amico mio" la frase rimase sospesa nell'aria, come se ci fosse troppo dolore per riprenderla. A Palermo tremava il respiro, mentre io stringevo con forza la mano di Denver cercando di deglutire il mio dolore scuotendo la testa. Nairobi si asciugò in fretta le lacrime e cercò di venire verso di me mentre Martìn non si mosse, rimase a fare i conti con i suoi sentimenti fissando le assi del pavimento.

Il cuore mi sfondava il petto e con le sue mani olivastre Nairobi mi afferrò il viso umido di lacrime ma le sue parole mi arrivavano distorte"Giacarta" mi chiamò "Che succede? Ti senti bene?" Piegai ogni muscolo del viso in una smorfia complicata come ciò che provavo. Forse non feci la cosa giusta, Palermo era ferito proprio come un coniglietto nel bosco, e in quel momento soffriva almeno tanto quanto me. Ma la rabbia ti rende sordo e cieco. Diedi un pugno alla poltrona "Sei proprio una merda" dissi e tutti sapevano benissimo a chi mi riferivo. Tremando sulle mie caviglie, sulle mie gambe magre e pallide coperte dalla tuta, mi diressi verso Palermo scostando delicatamente le braccia di Nairobi che ancora mi accompagnavano nei miei movimenti "Sei serio?" Mi alzai sulle punte dei piedi per raggiungere il suo viso "SEI SERIO PORCA PUTTANA?" Gli gridai cercando di sovrastare la mia insicurezza con quella scenata. Lui abbassò il viso come un cane randagio spaventato dal temporale. Mi morsi le labbra mentre percepivo lo sguardo dei presenti pesarmi sulle spalle "Mi avevi detto che non lo conoscevi, che l'avevi visto una volta al matrimonio di mia madre" le mie parole erano distillato di dolore "Che era vivo" cercai di prendere fiato mentre lui non parlava "E ho dovuto sapere che mi avevi mentito origliando una conversazione dove volevi tagliarmi fuori da questo gioco di merda" l'unica cosa che riuscii a dire fu "Perché?" Un perché sussurrato, sofferto, stremato, messo li aspettando che qualcuno lo notasse e lo prendesse. Lui prese un respiro proprio come fanno i bambini dopo aver pianto "Senti Giacarta, io" esitò "lo so" disse infine. Non seppi dire se fosse un tono pentito oppure no. Lo so, avrebbe semplicemente dovuto dire qualcosa in più, quel qualcosa che non aveva il coraggio di dire in quanto troppo orgoglioso, ho sbagliato lo so, volevo solo sentirmi dire questo. Le lacrime scendevano come una pioggia battente in una sera d'autunno illuminandomi gli zigomi e facendomi bruciare la piccola ferita che ancora intaccava il mio viso "Lo sai, ma non ti interessa vero? Perché tanto, tanto io non sono lui" ripresi "Sono un giocattolo, come quando i bambini cercano di rimpiazzare un giocattolo dopo averlo perso ma poi quello nuovo non soddisfa le loro aspettative" colpii il pavimento con lo scarponcino "Dimmelo cos'ho? Ho i suoi occhi? Il naso? La forma del viso?" Lo aggredii mettendomi davanti a lui. La verità era che non volevo nessuna risposta. Finalmente quel che rimaneva del suo sguardo si posò su di me "Hai il suo viso, persino i suoi modi di fare e quando sorridi" Martìn parlò con questo tono che suonava duro eppure diceva solo verità che a lui facevano male più che a me, mi rifiutai di farlo finire "Non ne voglio più sapere, avresti potuto raccontarmelo prima" sputai acida "Avresti potuto dirmi prima chi era perché ora verrò a saperlo da qualcun altro, da qualcuno che non lo idolatrava, non conoscerò la stessa versione che conoscevi tu" feci un passo verso la sua figura e con un dito lui mi sistemò i capelli che erano caduti fuori dalla mia coda in un gesto spontaneo, mi scostai annebbiata dalle lacrime "Mi hai mentito, mi avete mentito tu e il Professore" avevo fame d'aria mentre parlavo "Mi avete portata qui dentro privandomi della mia libertà, della mia possibilità di avere una famiglia normale" alzai le spalle "E tutto questo per cosa? Non mi hai nemmeno voluto bene per un momento, mi tenevi solo per un ricordo dell'amore che hai provato, per te, mi hai rovinato la vita" urlai, ma erano urla che avevano un retrogusto talmente amaro. Urlai verso di lui stringendo i pugni conficcandomi le unghie nella mia stessa carne. Lui scosse la testa cercando di riprendere la sua dignità, stava affogando"Pensi che qualcuno li fuori ti avrebbe presa? Qualche famiglia di squilibrati avrebbe adottato una sedicenne figlia di una ladra ricercata da anni? Sei un'ingenua" mi fece male. Uno schiaffo di realtà. Glielo diedi anche io uno schiaffo e stranamente non si ritrasse, incassò con una smorfia, quel mio schiaffo era la mia risposta. La mia risposta per tutto.
"E puoi pure dire al Professore" ripresi facendo difficoltà ad alternare le parole ai fiati "Che a quanto pare lo so, so che mio padre è Berlino e che è morto nel suo piano del cazzo" ogni parola pesò moltissimo nella mia bocca "E digli anche che se non fosse per gli altri, uscirei di qui e vi fotterei raccontando qualsiasi cosa che so, stanne certo" lui sorrise amareggiato "Non sai quello che dici Giacarta" mi avvicinai fino ad arrivare a pochi centimetri da lui. Nessuno osava intervenire. Nessuno osava entrare in quell'anello di dolore.
"Quello che dico è che mi hai rovinato la vita, mi hai rovinata" le sensazioni in quel momento si avvicinavano al dolore fisico "non dovrai più preoccuparti di me, non preoccuparti più di perdermi, perché per me" sospirai "per me sei morto Palermo, tu non sei assolutamente nulla per me se non un cadavere di una persona che credevo fosse diversa" unii le sopracciglia per guardarlo attentamente in quel momento. Mentre le lacrime gli bagnavano le guance, con il viso piegato in quell'espressione inconscia che si fa quando si prova così tanto dolore da smettere di respirare. Mi faceva pena per il semplice fatto che era un incapace nel gestire i suoi sentimenti.
"Bene così" disse forse aspettandosi che la mia scenata continuasse, che avrei continuato a sputare accuse e avrei potuto farlo ma poi come forse non avrei voluto fare ripetei "Bene così" e mi allontanai uscendo dalla porta poco prima di scoppiare in un'orchestra di singhiozzi.
Come il Titanic che andava verso gli abissi, dopo il caos, mentre Jack e Rose si guardavano nel freddo del mare, il colosso di metallo affondava lasciando in superficie solo un ricordo di ciò che era stato e di ciò che avrebbe potuto essere se tutto non fosse andato a puttane. Rimaneva a galla solo un ricordo di quella che avrebbe potuto essere la mia vita se mio padre non se ne fosse andato, oppure se Palermo avesse deciso di raccontarmi ciò che meritavo di sapere, se avessimo deciso di vivere come qualcuno che non fosse proprio quelli che eravamo in quel momento. Come avremmo vissuto se il lutto di mio padre fosse stato metabolizzato invece che rimanere nell'aria come una bomba che si ha paura di disinnescare. Come sarebbe stato se...e mille altri se. Ormai vivevo facendo tesoro di quei periodi ipotetici.

Ay, mi niña -Casa de papel fanfiction-Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora