Salvador Dalì sosteneva che nel suo mondo il tempo non fosse rigido ma bensì un tutt'uno con lo spazio, un fluido malleabile, senza limiti. Amava rappresentare questo concetto con orologi che si scioglievano, abbandonati come stracci sulle superfici, molli come burro su una fetta di pane caldo. All'improvviso lì, dentro la riserva nazionale spagnola, mi ritrovai in una sorta di universo Daliniano. Dove il tempo faceva di contorno a tutto, c'era ma aveva smesso di scandire le giornate in modo oggettivo e razionale. Era Nairobi a dare il tempo al tempo nelle fornaci. Il tempo era diventato solo la nostra unità di misura per fondere più oro, e ancora più oro.
Avrei tanto voluto che l'alternarsi del giorno e della notte tornasse a scandire le mie giornate come faceva prima dell'entrata lì. Sarebbe stato gratificante. Il fatto che fosse il tempo a scandire la mia vita e non la paura, era gratificante. Da quando quel portone si chiuse, costruendo un muro tra me e Carla, tra un mondo il cui tempo contava perché scandiva la vita delle persone e un mondo in cui il tempo contava perché scandiva il numero di pepite prodotte, avevo cominciato a vivere su delle montagne russe. Passai dai giorni più tesi della rapina ai giorni in cui mi sentii tanto leggera da poter volare, in pochi attimi. Tutto cambiava contro la mia volontà. E se fossi diventata pazza? E se lo fossi già diventata?
Venivo divorata dalla paura che Carla facesse di testa sua e parlasse comunque, del resto avrebbe potuto pensare che non glielo avevo detto per paura. E il fatto che avessi paura implicava che ciò che lei pensava fosse corretto. In conclusione avrei fottuto tutti pur non volendolo, pur avendoci rinunciato all'ultimo secondo. Del resto, non avevo mai fatto parola con Carla delle mie paure, dei miei problemi, di chi io fossi, l'unica conferma che io le avessi mai dato era costituito dal: chi tace acconsente. Ma lei non si era arresa, sapeva di avere ragione ma non sapevo dirle nemmeno se fosse così come credeva lei. Insomma non poteva credere che potessi risponderle così a cuor leggero, avevo sedic'anni ma avevo delle responsabilità.
Così i pensieri avevano ridotto le mie labbra ad assumere un colore rossastro e violaceo a causa dei continui morsi che mi davo nervosa mentre dal mio angolo accarezzavo il volto di ogni ostaggio con gli occhi. Abbandonata sulla spalla di Stoccolma, rassegnata, rassegnata alla vergogna che avevo provato quando Nairobi aveva capito ciò che pensavo di fare, l'avevo tradita, certo non completamente ma concettualmente li avevo fottuti tutti. Non mi ritenevo di molto migliore rispetto a Martìn. Avevo tramato tutto a loro insaputa, mi ero comportata da cacasotto e se non fosse stato per Nairobi...se non fosse stato per lei sarei diventata la pecora nera più di quanto non lo fossi già. Mi sarei dovuta accontentare di provare vergogna piuttosto che portarmi addosso una macchia indelebile di tradimento che avrebbe potuto a mandare a puttane tutto, persino l'entrata di Rio, Rio che in quella storia non centrava niente. Dolce Rio.
Forse uno dei motivi per cui amai così tanto Nairobi fu anche questo, il suo religioso e rispettoso silenzio. Il silenzio d'intesa che stendemmo su questa questione, senza farne parola, né tra di noi, né con gli altri. Restavo io in balia della paura di cose sarebbe successo nel mio fantomatico dopo. Perché come mi aveva detto lei: c'è sempre un dopo. Infondo tutti sbagliamo, sbagliamo e non ci perdoniamo, gli altri ci perdonano ma noi no. Farci perdonare da noi stessi è forse la parte più complessa del perdono. Tutti hanno le loro pulci, e forse sono quelle stesse pulci che ci permettono di perdonare gli altri pensando che anche noi in passato abbiamo sbagliato facendo qualcosa che di sicuro ci sembra peggiore. Quindi chiunque in confronto a noi potrà ottenere il nostro perdono. È un meccanismo così complicato ma così dannatamente affascinante.
Ma in ogni caso, un po' di serenità mi veniva infusa almeno dal fatto che oltre a lei non lo sapesse nessuno. Almeno fino a quel momento.Quasi mi appisolai sulla spalla di Stoccolma, con la sigaretta fra le dita, gli occhi delicatamente chiusi, i capelli che sfuggiti alla trecce fatte da Nairobi mi ricadevano sulle spalle scoperte facendomi un lieve solletico. Gli ostaggi che con mormorii sommessi si crogiolavano per terra come vermi, sui loro sacchi a pelo, impauriti, sudati, stanchi. Lo ero anch'io.
La radio, che tenevo sul bancone marmoreo dove fino a pochi giorni prima si sporgeva la signorina delle prenotazioni, suonava una canzone spagnola lenta che non faceva altro che infondermi un ulteriore senso di pace illusoria. Abbassammo la guardia per poco, furono pochi minuti. Tempo che il ritmo della musica arrivasse a trapanarmi la testa mentre canticchiavo in silenzio muovendo impercettibilmente le labbra, e fuori colpimmo il nostro ennesimo iceberg. L'ennesimo gigante di ghiaccio che non faceva altro che spingere più a fondo la nostra barca. Stavano entrando.
La polizia, silenziosi come stessero per entrare in un fottuto asilo nido cominciarono a intrufolarsi come le lucertole nelle crepe del cemento. Credendo di non essere visti da nessuno, ma Marsiglia era il nostro gatto appostato sul muretto che con la zampa prende le lucertole per la coda. Così come una pallina da ping pong la notizia rimbalzò arrivando al camper del Professore e poi a Palermo che con grande teatralità ce la comunicò. E in quel momento il cuore mi saltò in gola.
La prima e unica cosa che mi saltò in mente fu che ovviamente Carla avesse parlato, quanti soldi le avevano dato? Centomila? Novecentomila? Un milione? Cento milioni? Nessuno? Una pacca sulla spalla? Pannolini per suo figlio?
Questo non lo sapevo, ma se in quel momento la polizia voleva scivolare nella nostra grotta delle meraviglie era solo per buttarci dentro il loro Aladdin, in modo che io come il genio della lampada lo seguissi conducendomi dritta dritta nelle mani dello stregone di cui avrei esaudito tutti i desideri. Non potevo sapere in che modo avrebbero tentato di sedurmi, ma se stavano entrando era senz'altro per quello. Ero riuscita a mettere tutti in pericolo anche senza volerlo davvero, avevo fatto retromarcia troppo tardi. Ero riuscita a mettere in pericolo loro e me in particolar modo. Non sapevo come uscire da quella situazione, mi sentivo affogare, affogavo senz'acqua.
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Ay, mi niña -Casa de papel fanfiction-
أدب الهواة/cam·bia·mén·to/ Sostituzione o avvicendamento che riguarda in tutto o in parte la sostanza o l'aspetto di qualcosa o di qualcuno; La giovane Berenice Muccio aveva atteso per anni che la vita le aprisse un'uscita alternativa da ciò che lei e la madr...