III

1.1K 32 4
                                    

All'incirca un'ora dopo mi trovai a bordo di una nave guidata da un ucraino alcolista che puzzava di pesce con altri uomini dell'est che bevevano birra e trasportavano casse. Mi sentivo terribilmente a disagio. Ecco non credevo che avrei sempre vissuto da principessa ma anche questo non rientrava in quelle che per lungo tempo erano state le mie aspettative. Quando per la prima volta vidi  la banda del Professore pensai fossero degli strambi con nomi di città: Helsinki, Nairobi, Denver, Tokyo...che assurdità. Arrivammo in una zona nascosta e losca del porto, non uscivo da quasi due mesi e sentire l'aria fresca sul mio pallido viso spigoloso fu la sensazione migliore di quel periodo, mi sentivo libera, si come uno di quegli uccellini che si tengono a casa in gabbia quando per qualche minuto riescono a fuggire ma tanto non sanno volare e quindi non possono andare lontano. Mi sentivo esattamente così. Il Professore ci guidava verso la nave industriale e ingrigita dallo sporco, e dal colore poco invitante che il cielo aveva quel giorno. Martìn era impeccabilmente elegante nonostante tutto. Mi aggiustai il berretto sulla testa rabbrividendo e scoccandogli un'occhiata che venne ricambiata con una pacca sulla spalla. Lo stavo facendo solo perché mi stavo fidando di lui, e forse era una pessima idea. Ora vi svelo un segreto, io non fui mai convinta di entrare alla Banca, io non ero una rapinatrice, ero una ragazzina con manie di protagonismo e qualche qualità utile all'interno di una rapina, ma non volli mai entrare li, non ci fu mai un momento in cui ne fui completamente convinta questo perché sono molto più umana di quello che tenderete a credere, e gli umani sono esseri meschini e cagasotto.
Salimmo a bordo attraverso una passerella in legno marcio che sarebbe potuto cadere al minimo sospiro, il Professore aspettò che passassimo e poi ci seguii stretto nella giacca "Niente nomi, niente informazioni personali e niente relazioni personali" disse sventolando tre dita nell'aria. Martìn, Palermo, rise "Sergio vuoi sempre avere tutto sotto controllo vecchia volpe, dimmi quale delle tue regole persiste ancora? Quella dei nomi di città? E nemmeno per merito tuo, sai è un meccanismo del cervello umano quando conosci una persona con quel nome potranno dirti che si chiama in mille modi diversi ma per te resterà sempre il nome di città" e poi entrò nella nave che puzzava di tonno avariato, mentre il Professore ci seguiva. Aveva già i nervi a pezzi e la rapina non era nemmeno iniziata.
Il Professore venne accolto da un ululato di gioia da parte della banda, degli strambi, e da una bella donna che subito si alzò per affiancarlo. Una donna alta, slanciata, con gli occhi da cerbiatta, scuri, un'incarnato come se fosse sempre stata abbronzata e dei capelli ramati che le cadevano sulle spalle magre con una leggerezza da tale da renderla ancora più bella, aveva un naso aquilino su cui brillava un punto luce che risultava complice del suo sguardo profondo "E lei...?" Domandò con voce pacata ed espressione interrogativa. Il Professore posò una mano sulla mia spalla "Lei è con noi" era a disagio livello 2000. Questa non è la mia gente, pensavo. Un uomo castano dai lineamenti spigolosi rise con una risata mai sentita prima in vita mia, una sorta di motore a scoppio della peggior Ape "Bello Professore ci hai portata la compagna di giochi per Cincinnati" si passò una mano sul viso continuando a ridere "Quanti anni ha? Dodici?" Una donna bionda con un bambino in braccio gli intimò di zittirsi con uno sguardo mentre gli occhi degli altri componenti della banda puntavano dritti su di me "Ciao" dissi alzando una mano poi Palermo mi afferrò per un braccio e mi portò a sedersi con sé su una cassa in legno grezzo. Andava tutto bene.

Me ne stetti zitta per così tanto tempo che ad un certo punto dubitai persino di saper parlare ancora. Nessuno mi rivolgeva la parola, ogni tanto qualcuno mi guardava come fossi l'ultimo arrivo del circo ed effettivamente era proprio così che mi sentivo. Ero l'ultima arrivata e non potevo fare nient'altro se non tacere in mezzo al chiacchierio di quella strana banda. Infilai le mani nelle tasche del giubbotto per resistere al freddo di quell'enorme scatola di metallo galleggiante e nauseante, e le mie dita affusolate incontrarono una superficie morbida e piena di piccole pieghe, quella consistenza indescrivibile dei soldi. Era la banconota di papà. La tirai fuori per posizionarla davanti ai miei occhi e guardarla come fosse un porta fortuna, come se potesse promettermi che sarebbe andato tutto bene. Era scolorita rispetto alle banconote nuove di zecca, stropicciata e dai bordi slabbrati. Osservai il numero di Martìn scritto frettolosamente con una penna, e mi interrogai sul perché l'avesse scritto proprio li, perché avesse deciso tra tutte le cose al mondo di lasciarci il numero del telefono di un folle narcisista e sociopatico. Sbuffai frustrata rimettendola in tasca e cominciando a passare gli occhi su tutti quelli che si trovavano in quella misera barca maleodorante.
"Perché sei qui?" Trasalii a sentire una voce diversa da quella di Martìn dopo ore che non ascoltavo oltre che la sua parlantina senza osare interromperlo perché troppo distrutta dai dubbi e dall'ansia. Mi aggiustai il berretto e mi voltai verso destra da dove proveniva la voce, aveva parlato una bella donna giovane dai tratti gitani, con delle sopracciglia folte che facevano risaltare i suoi occhi profondi e scuri come uno stagno d'inverno, un viso di una bellezza peculiare con dei tratti caratteristici come il naso pronunciato, la bocca ampia con delle labbra carnose e rosee in contrasto con la sua carnagione olivastra. Lei era Nairobi, la donna più Donna che avessi mai potuto conoscere. Sospirai alla sua domanda "Se lo sapessi forse sarebbe più facile" lei si aggiustò i capelli che sfuggivano alle trecce complesse che ornavano il suo capo e poi mi guardò "Il professore non prende nessuno senza motivo, se sei qui vuol dire che nella testa di quell'uomo già tutto combacia" disse puntando l'indice verso il Professore che seduto, sempre con quella postura impettita un po' goffa, parlava con quella bella donna che l'aveva accolto non appena eravamo entrati. "Quindi come ci sei arrivata qui?" Ripetè aggiustandosi sul pavimento e lamentandosi su quanto la barca le stesse distruggendo il culo "Sono con Palermo, tutto qui" borbottai indicando con un cenno della testa Martìn che se ne stava accovacciato vicino ad alcuni membri della banda. Lui non aveva sedic'anni, non era una donna ed era l'ingegnere a cui apparteneva  il piano, era normale che avesse più facilità a socializzare di me. Lei scosse la testa mordicchiandosi il labbro superiore "Non intendevo questo" disse con quel suo tono di rimprovero che allo stesso tempo riusciva a risultare rassicurante "Io ad esempio sono qui perché voglio salvare Rio, perché Rio fa parte della mia famiglia" alzò le spalle "Vedi devi fare così come me" ridacchiai alzando gli occhi verso il soffitto di quella scatola di metallo ammuffita "Va contro le regole del professore diffondere le mie informazioni personali" dissi stringendomi nella giacca, lei rise sbattendo una mano lievemente sulla coscia "Quelle regole sono andate a puttane tre anni fa ragazza, persino il professore ha smesso di crederci" disse scoccando uno sguardo all'uomo che chiacchierava ridendo con la donna con gli occhi da cerbiatta, era pazzesco come il Professore avesse quell'espressione soltanto quando parlava con Lisbona, incredibilmente quando parlava con lei sembrava un umano come tutti noi. Poi Nairobi alzò le mani "Ma va bene, va bene rispetto i tuoi tempi" poi per qualche secondo tra noi aleggiò il silenzio e così decisi di provare ad iniziare con il piede giusto. Le porsi la mia mano pallida e ossuta e dopo averci rapidamente ragionato mi presentai come Giacarta, fu così che diventai la capitale dell'Indonesia, a bordo di una massa di metallo galleggiante di dubbia origine. "Nessuno ce l'ha con te sai" borbottò osservandosi le unghie "È solo che sono tutti molto stressati e tu sei molto giovane ma io credo in te" disse guardandomi "Non ho pregiudizi sulla tua età o sul tuo sguardo da agnellino innocente"-"Grazie" le dissi, ed era vero gliene ero veramente grata. Le ero stata grata sin dal momento in cui aveva deciso di rivolgermi la parola sottraendomi alla morsa della vergogna. Si strinse nel giaccone color prugna, decisamente pacchiano, portando i suoi occhi scuri verso il Professore "E anche se non avessi fiducia in te, io ho tanta fiducia in quell'uomo laggiù, lui ha già un piano che tiene conto di tutte le variabili" disse estasiata e aveva tutti i motivi per esserlo. L'intelligenza del professore era motivo di estasi. Poi riportò lo sguardo su di me "In ogni caso stai attenta Giacarta, qui non giochiamo a fare i giochi di ruolo" mi intimò e io annuii portando le ginocchia al petto e sussurrando un "Capito". Non parlammo molto, lei mi spiegò un po' come stavano le cose, chi erano tutte quelle persone e come la regola essenziale li dentro fosse non voltare le spalle ai compagni. E più sentivo parlare di rapine, più un senso di ansia mi attanagliava la gola, più mi sentivo debole e incapace e mi chiedevo perché mi fossi fidata di Martìn. Furono ore che sembravano non finire mai, avrei tanto voluto ascoltare musica italiana nel soggiorno di Martìn in quel momento, rimpiangevo tanto quella vita da latte caldo, biscotti e vestaglia. Ma ormai era troppo tardi. Dovete scusarmi se risulto ripetitiva ma nella mia testa era proprio così, tutti i pensieri sintonizzati sullo stesso canale.
Dopo forse un'ora scarsa lei si alzò da terra urlando quanto le facesse male il culo e sollevando una risata da parte di un uomo barbuto e dell'uomo dai lineamenti spigolosi che pensava fossi solo una bambina, Nairobi mi aveva detto che loro si chiamavano Helsinki e Denver. Un gigante buono e serbo, e una testa calda che pur di salvare l'amore della sua vita e suo figlio avrebbe fatto fuori chiunque. Poi Nairobi mi guardò poggiandomi una mano sul ginocchio "Comunque vada, benvenuta tra le donne del gruppo" mi sorrise sincera come solo lei sapeva fare "Stiamo aumentando a vista d'occhio" borbottò guardandosi in giro "Dovranno temere il matriarcato" bisbigliò facendomi l'occhiolino e andandosene con una risata verso Tokyo che si era appena risvegliata da cinquanta minuti di sonno tormentato. Forse avrei dovuto provare a riposare anch'io, era l'unico modo per distogliermi dai brutti pensieri.

Ay, mi niña -Casa de papel fanfiction-Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora