VIII

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Dicono che le paure sono come delle mine, esplodono non appena ci si mette sopra un piede. Ed io ero un fottuto campo minato. Nairobi aveva semplicemente fatto da mezzo corazzato ed era venuta a far brillare quella mina per spegnerla. Mentre camminavo su e giù, e gli ostaggi tremavano e sudavano farneticando per di più cose senza senso pensai che quelle scene avrebbero popolato il mio immaginario per un tempo inconcepibile da una mente piccola come quella umana. Erano per la gran parte in piedi come dei cazzo di cavalli ma tremavano come  fossero tutti febbricitanti. Ogni tanto mi fermavo e sostavo davanti a qualcuno di loro accarezzando la loro figura impaurita con gli occhi, Nairobi affiancava la mia camminata con molta più sicurezza di me e a grandi falcate, con un che di allegro e di euforico. Continuava ad esordire con frasi che non facevano altro che far sussultare le nostre pepite più preziose, i nostri ostaggi dai poteri magici "Noi proteggeremo voi e voi proteggerete noi, che meraviglia" con estasi Nairobi disse questa frase e in quel momento mi domandai se ne ero in grado, ero in grado di proteggere un centinaio di uomini e donne? E per quanto avremmo goduto della loro protezione immacolata?
"Avanti togliete le bende" urlai aumentando il passo per riuscire a guardarli tutti, quelli che si mossero furono pochi "Avanti cazzo" li incitò Nairobi e quando riuscii a vederli, a vederli attentamente con tutte le loro imperfezioni da esseri umani che vanno in banca pensando di uscirci pochi minuti, o al massimo un'ora dopo, vidi davanti a me una miserabile rappresentazione dell'umanità fin troppo veritiera. Individui cagasotto che fremono come topolini febbricitanti e che continuano sussultare ad ogni sillaba che esce dalla bocca di Bogotà mentre parla della fonderia dove verrà concepito il nostro dannato tesoro da pirati dei Caraibi.
La sceneggiata durò piuttosto a lungo, tremavano come agnellini mentre Nairobi con quel suo sarcasmo che ti lasciava l'amaro in bocca reclutava volontari con Bogotà per farli lavorare alla temperatura di un forno crematorio, l'ennesima finzione, l'ennesimo "ciak si gira", l'ennesima sceneggiata che fu persino goduta con un po' troppo brio da uno dei nostri fonditori infiltrati che cominciò a divertirsi ad immedesimarsi nel ruolo di ostaggio con manie di eroismo. In quel momento negli occhi dei presenti si accese la speranza come un fiammifero "Oh ecco guardate uno di quelli che si ribella" sembravano dire tutti "Oh si è proprio lui" sembravano rispondere altri. Poveri illusi.
Mi chiedevo se incutessi timore, almeno un po', mentre camminavo su e giù come un cane da caccia imbracciando il fucile ben sapendo che se fosse stato necessario non ero certa di poterlo usare "come un'appendice del mio corpo" come diceva Lisbona.
Avevo una nausea costante in quel posto, come se avessi potuto rigettare sui miei stessi stivali in un qualsiasi momento, come se il mio stomaco continuasse a contorcersi su se stesso pur di farmi risalire anche i succhi gastrici "Che cazzo hai fatto" dissi così proprio in uno di quei momenti in cui sentivo che sarei potuta stramazzare a terra. Era ancora il primo giorno, le prime ore a dire il vero. Palermo era vivo, e certo quando lo vidi la mia rabbia cominciò a montare come quella di un toro in una corrida ma quando mi si presentò davanti mi mancò qualcosa. Il suo sguardo da figlio di puttana, i suoi occhi che mi squadravano soffermandosi su ogni mio dettaglio che potesse ricordargli mio padre, qualunque questi fossero. Era coperto da una benda intrisa di rosso cremisi, il viso incrostato dal sangue "Niente di cui ti dovresti preoccupare bambina" fu la sua risposta, cinica, strafottente. Mi venne voglia di tirargli un gancio destro. Espirai con violenza cercando di buttare fuori l'ira del momento. Ogni volta che parlavamo gli ostaggi timorosamente facevano scattare le pupille da una parte all'altra freneticamente. Denver lo stringeva con forza sul braccio, lo guardai con aria interrogativa "Mi volete dire che cazzo succede?" Ringhiai cercando di non farmi sentire dagli ostaggi, come se fosse una questione top secret "Succede che il piano va avanti signorina, non è forse di tuo gradimento?" Mi domandò Martìn con tono saccente. L'ira si mise in circolo scivolando leggera nelle mie cavità corporee, sgusciando come se non esistesse gravità. Mi avvicinai a lui e l'odore acre e metallico del sangue mi punzecchiò il naso "Sai che ti dico?" Domandai senza aspettare una risposta e trattenendo la rabbia in gola "Chiedo venia se mi sono preoccupata per te come invece non ti sei degnato di fare tu" pronunciai ogni singola sillaba in modo da fargliela ricadere addosso con un unico senso di pesantezza. Ma a lui sembrava non pesare nulla, pur avendo la vista compromessa a causa di non so quale incidente di percorso con sicurezza portò la mano ai miei capelli e me li sistemò dietro l'orecchio "Forse è il caso che tu smetta di preoccuparti per me e che inizi a pensare a occuparti di questa gente, o magari mi sbaglio? Siamo per caso venuti qui per giocare a uno di quei giochi che si fanno alle scuole elementari?" Domandò ironicamente stuzzicando la mia indole. Assottigliai gli occhi pur sapendo che non poteva vedermi, mi morsi la lingua pur di non dire qualche cattiveria di cui avrei potuto pentirmi "Bene Palermo" ripresi cercando di non far tremare la voce per la rabbia "Qui va tutto alla grande vai pure a fare il capo da un'altra parte" magari dopo questa frase si potrebbe pensare che sono il genere di persona coraggiosa, che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno, ma ero riuscita a rispondere a tono in quel modo solo perché la mia rabbia era più forte di qualsiasi altro sentimento che avrebbe potuto frenarmi. Allo stesso tempo avrei voluto scoppiare a piangere, ero come un rubinetto che perdeva, piangevo molto più spesso di quello che avrei dovuto.
Mi aggiustai il fucile in spalla e mi allontanai da lui con l'accorgimento di evitare di guardarlo fino a che non se ne sarebbe andato guidato da Denver che fungeva da cane guida. Soffrivo sempre di più a pensare a come gli avevo voluto bene, alla nostra vita da latte caldo e vestaglia, a come eravamo stati bene, pensare che lui non aveva pensato a me come Berenice ma solo come figlia di Andres, era come ricevere un pugno nello stomaco.
Provavo lo stesso tipo di smarrimento degli ostaggi, ah, come mi facevano pena, erano persone normali che vivevano una vita da latte caldo ogni mattina quando si alzavano dal letto. Almeno la maggior parte di loro. Erano quel tipo di persone che si sentono sicure quando camminando per le strade di sera vedono una volante della polizia, persone normali, con le carte in regola, con problemi forse più grandi dei miei ma con una vita che permette loro di gestirli. In molti erano sull'orlo di una crisi di nervi così feci ricorso a quello che era il mio unico ruolo e cercai di sciogliere la tensione "Abbiamo saltato le presentazioni" dissi e contai sul fatto che non si sarebbero accorti che mi tremava la voce "Io sono Giacarta" dissi fermandomi lungo un corridoio e passando gli occhi su una fila di persone impaurite come topolini che si nascondono dalla luce. Mi abbassai piegando le ginocchia vicino a una donna con una grossa pancia gravida, chiudeva gli occhi e li riapriva freneticamente come quando spegni e riaccendi il computer sperando che possa eliminare il problema "Va tutto bene" la rassicurai, lei scosse la testa "Fidati di me, come ti chiami?" Le chiesi "Carla" rispose flebile portando istintivamente le mani alla pancia, sorrisi cercando di rassicurarla. Dopotutto ero una ragazza di sedic'anni come avrei potuto volere fare del male a tutte quelle persone?
"Bene Carla" le posai una mano sulla spalla, sentivo lo sguardo di Helsinki e Stoccolma posarmisi sulle spalle "Hai bisogno di ansiolitici? Abbiamo delle benzodiazepine puoi prenderle nonostante la gravidanza non succederà nulla" provai ad usare il mio tono più pacato e più rassicurante nonostante avessi una paura fottuta. Lei annuì sistemandosi i capelli dietro alle orecchie com movimenti ripetuti in modo quasi compulsivo. Mi alzai in piedi "Qualcuno ha bisogno di farmaci?" Domandai rivolta a tutti, potevano fidarsi di noi, di me "Calmanti? Qualsiasi altra cosa?" Nessuno si mosse "Abbiamo a cuore la vostra salute, forza non ve lo chiederò un'altra volta" li incitai. Una mano tremante si alzò, una signora di forse sessant'anni cominciò chiedendo dell'insulina e quell'insulina diede il via a una serie di richieste che Stoccolma si appuntò scrupolosamente "Bene!" Esclamai entusiasta sorridendo "Bene vedete così andiamo benissimo" la mia euforia momentanea venne colpita dalla protesta di un ostaggio, un uomo di forse cinquant'anni stempiato, magari un padre di famiglia venuto in banca per un prestito. Amavo cercare di immaginare la vita delle persone solo da uno sguardo "Non assecondatela vuole ucciderci" lo disse con voce incrinata, gonfia di paura, un tono acuto e innaturale "Non usciremo vivi di qui" continuò e si portò le mani davanti al viso come se avesse paura che guardandoci sarebbe morto, come se fossimo dei basilischi. Così il mio bel lavoro perse il suo senso e tutti ricominciarono a crogiolarsi nelle loro paure più che motivate. Helsinki a passo svelto si avvicinò all'uomo imbracciando l'M16 "Ma che cazzo" esclamai contrariata alzando gli occhi al cielo, sollevai le braccia per poi farle ricadere lungo i fianchi "Sta zitto" gli intimò Helsinki ma l'uomo andò a ricercare il coraggio e usò tutto quello che aveva messo da parte nella sua vita da vestaglia per dire "Vedete vogliono zittirmi perché dico la verità" cercò di sembrare forte ma lo tradì il labbro inferiore che cominciò a tremare di sua sponte "Piano piano" dissi avvicinandomi "Non vogliamo uccidere proprio nessuno, anzi io quasi vi voglio bene si non credete che siamo come una grande famiglia?" Domandai continuando a recitare la parte di quella sicura di sé, mai come in quei momenti sentì di dover far ricorso ai preziosi consigli di Nairobi sull'essere una donna forte che spacca i culi senza bisogno di nessun altro che mi affiancasse. In ogni caso nessuno rispose alla mia domanda "Non credete sia così?" Chiesi di nuovo e a quel punto qualcuno annuii impaurito forse perché avevo avvicinato la mano alla fondina senza rendermene conto "Bene allora" arrivai a qualche centimetro dall'uomo "Come ti chiami?" Lui si succhiò le labbra come se potessero decidere di parlare senza che lui lo volesse "Mi sembri un uomo cortese perché non mi rispondi, come ti chiami?" Riformulai piegando le ginocchia per riuscire a guardarlo in viso "Pablo" rispose lui con un bisbiglio che uscì di getto come un proiettile sparato male. Gli posai una mano sulla spalla "Bene Pablo direi che ora siamo amici" borbottai con un sarcasmo acidulo "Procureremo dei calmanti anche a te Pablito" la sua fronte era imperlata di sudore "Credo che tu ne abbia bisogno" gli sorrisi e mi allontanai. Erano umani, pusillanimi, spaventati, apparivano vili e davanti a rapinatori armati non potevano far altro che obbedire anche se apparivano meschini e poveri di dignità. Ma alla fine era solo questione di abitudine.

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