Ero diventata come uno scolapasta. Completamente trafitta dai proiettili, prima uno sulla spalla. Poi uno nel fianco. Nella coscia. Mi inseguivano come api a cui hanno rubato l'alveare. Ma la cosa orrenda è che non avevo un luogo dove fuggire e non vedevo nemmeno da dove provenissero i proiettili. Era una tempesta di botti e fischi, rumori sordi e acuti, la paura che mi entrava nei respiri, il panico che si dimenava nel mio petto, e le voragini sanguinolente che si aprivano nella mia pelle. Era tutto così reale. Urlavo i nomi della mia banda, dei miei fratelli d'anima. Chiamai mamma. Chiamai papà. Il Professore. Ma non rispondeva nessuno. Ero sola. E la cosa peggiore è che in quel sogno realizzai di esserlo davvero da quando avevo perso mamma. Per tutta la vita avevo avuto sempre mamma a farmi da scudo in qualsiasi direzione. Per tutta la vita mamma aveva sempre fatto i piani migliori, mi aveva insegnato come ragionare, come rubare, come agire. Mi aveva insegnato come provare piacere nel rubare, mi aveva fatto vivere nell'arte. Finché lei c'era, provavo piacere in tutto ciò che facevo. Mia madre per me era stata la mia parte complementare. Avevo diciassette anni ma non avevo mai camminato senza di lei. Non avevo mai rubato neanche cinquanta centesimi senza i suoi preziosi consigli. E invece eccomi lì, pronta a rubare la riserva d'oro nazionale. Non c'era qualcosa che non mi facesse paura. Era tutto immensamente grande e spaventoso rispetto a me. Era per lei che lo stavo facendo. Così mi dicevo. Era lei ad aver voluto che chiamassi Martín. Era indubbiamente la cosa migliore per me. Eppure ero lì, ogni notte a navigare nei miei terrori più profondi. Senza sapere dove aggrapparmi. Perché lei, lei era sempre stata il mio unico appiglio. E poi mi ero trovata così, sospesa nel vuoto cosmico.
Poi aprii gli occhi. Così, di botto, come se fossi caduta da un precipizio. E sentii il sommesso russare di Nairobi, i borbottii di Helsinki in serbo, e tutti i nostri santi e i nostri Cristi che ci osservavano dalle pareti. Erano lì, eravamo vivi, al sicuro. Ancora per un po' le mura del monastero ci avrebbero protetti. Ma la paura, quella che provavo ogni notte, era terrore puro. Non si placava nemmeno nel momento in cui aprivo gli occhi e tornavo alla vita reale. Perché il vero incubo era la vita reale.
Di giorno in giorno più ci veniva illustrato il piano più radicava in me l'idea che non avrei potuto farcela. Che non avrei trovato papà. E c'erano dei momenti in cui quella voragine di sentimenti mi risucchiava lo stomaco e i succhi gastrici mi risalivano fino all'esofago. Tutti dormivano e io me ne stavo lì, rinchiusa in un mondo di incubi dove continuavo a morire sempre più atrocemente di notte in notte. Perché infondo sentivo di non poter venire compresa da nessuno. Per loro quella era famiglia. Io la mia famiglia l'avevo appena persa.
E in quei momenti avevo una sola spiaggia dove cercare riparo: Martìn. L'unica persona che mi era rimasta. Per quanto fosse figlio di puttana ricordo con amara nostalgia il suo abbraccio caldo. L'odore del suo shampoo alla lavanda. Le sue coperte infeltrite. La sua lampada cigolante e la porta scrostata dove andavo a bussare nelle ore più tarde della notte. Non so se vi sia stato un momento in cui le cose fra me e Martìn fossero perfette. Quando credevo andasse tutto bene in realtà mi stava mentendo, e da quando avevo scoperto il tradimento avevo cominciato a trattarlo con un distacco di cui oggi mi pento amaramente. Ma nelle notti al monastero io e lui ci chiudevamo nella nostra bolla, chiudevo tutti i mostri fuori e restavamo io e lui. Da soli. E allora non era più un figlio di puttana, era solo l'unica casa che mi era rimasta. Il monastero era stato come un fertilizzante per i rapporti. Li faceva crescere veloci, sani, forti. Il monastero mi manca.
Sgusciai fuori dalla stanza scalza zampettando nel freddo corridoio marmoreo. Mi sentivo piccola rispetto tutta quell'immensità di monumenti e affreschi. Il russare pacifico dei miei compagni faceva da sottofondo. Stavano tutti bene. O così sembrava. Mentre io mi sentivo come quei fantasmi incatenati delle fiabe che mi raccontava mamma. Intrappolata in una situazione che non mi apparteneva ma che allo stesso tempo era esattamente il posto dove avrei sempre dovuto essere. Perché infondo la banda dei Dalì si trovava nel mio dna. Perché infondo quella era una questione di famiglia anche se in quei momenti ancora non ne ero consapevole. Era questione di tradizione. E un dissidio interiore del genere a diciassette anni sembra ucciderti. Perché non ti senti padrona di niente ma è l'età in cui vuoi essere padrona di tutto.
Bussavo e aspettavo rigirandomi le mani nelle mani. Con le gote arrossate dalla paura e dall'ansia. Poi di solito non rispondeva mai e quindi entravo comunque senza chiedere. Certo, mi assumevo il rischio di trovarlo arrotolato nelle coperte con Helsinki. Ma in quel caso di solito non erano così silenziosi.
Martìn dormiva come un bambino abbracciato al cuscino con le coperte tirate fino al collo. Come se avesse paura dei mostri del buio. Perché vi erano un sacco di mostri che lo tormentavano. Povero Martìn.Quella notte mi richiusi la porta alle spalle, tirai su col naso e mi asciugai le lacrime col dorso della mano. La sua stanza era più calda delle altre, e anche meno polverosa. Quella stanza era stata sua da sempre. Si sentiva che gli apparteneva. Ogni cosa in quella stanza sapeva di Martìn. Il suo nome si respirava ovunque. I suoi ricordi si respiravano ovunque. I fogli sparsi, i vestiti piegati, le boccette di profumo e l'armadio cigolante. Mi guardavo in giro e mi pareva di vederlo in ogni angolo, con un calice in mano, chino sui libri, mentre ballava. Un'occhiata a quella stanza sarebbe bastata a definire Palermo. Il vero Palermo.
Mi schiarii la voce "Martìn" sussurrai. Lui mugolò ma non aprii bocca. Sbuffai stringendomi nella maglietta "Martìn" ritentai avvicinandomi di qualche passo. Ancora nulla. Diedi qualche leggero colpo al letto "Porca puttana Palermo!" insistetti e finalmente si girò. Mi guardò con gli occhi intorbiditi dal sonno e forse da qualche lacrima versata prima di dormire "Bambina" borbottò con stizza passandosi le mani sul viso. Non riuscivo a decifrare la sua espressione in quei momenti, sembrava odiarmi ma allo stesso tempo non riusciva a cacciarmi. Gli si illuminava il volto. Anche nel cuore della notte. Si stropicciò gli occhi con frustrazione "Cazzo ma tu dormi mai?" sussurrò a denti stretti. Mi sedetti sull'angolo inferiore del materasso e scrutai i suoi lineamenti nel buio. Non mi piaceva disturbarlo ma era l'unica soluzione ai miei terrori notturni. E poi doveva assumersi le sue responsabilità da neo-tutore.
Si sentivano le cicale frinire dal cortile. Il vento soffiare. Le lacrime gravavano come macigni nella palpebra inferiore dei miei occhi "Martìn" ripetei con voce rotta sentendo un forte dolore alla base della gola "Ho tanta paura" ammisi. E fu come respirare di nuovo dopo un'apnea durata ore. E ore.
Lui si tirò seduto tirando la cordina dell'abatjour così che la luce inondasse la stanza illuminando i nostri volti stanchi.
Era tutto scompigliato e portava una canotta bianca quella notte. Ma il volto, non era quello da figlio di puttana che portava ogni giorno. Quello, quello era il Martìn che solo io avevo il privilegio di vedere. E beh, mio padre, ma all'epoca del monastero ancora non ne avevo idea.
Quello era il Martìn che era stato ferito, calpestato e masticato, e che nascondeva dietro l'atteggiamento duro e folle. Quello era il Martìn che aveva amato. E che conobbi solo in quei momenti, e che avevo conosciuto nei miei ultimi respiri. Se ci ripenso, me lo ricordo così. Con gli occhi buoni e i lineamenti rilassati. Quello non era Palermo, non era l'ingegnere o il comandante militare. Era quella la persona a cui aveva voluto affidarmi mamma.
Scoppiai in un pianto singhiozzato e doloroso, lui si scostò le coperte di dosso "Andiamo bambina vieni qua, di che cazzo hai paura?" allargò un braccio per avvolgermelo attorno alle spalle non appena mi spostai. Mi lasciò un bacio casto nei ricci "Quelli della tua stirpe non hanno paura" mi strinse a sé con forza, come se avesse paura che potessi scivolargli via, come se temesse che potessi scomparire lasciandolo da solo in balia della vita "Mai" aggiunse. Gli occhi mi brillavano di lacrime alla luce fioca della lampada "Sogno di morire" mormorai tentando di calmare i respiri "Sogno di morire ogni notte" continuai "O sogno di perdere te, o o il Professore" mi morsi il labbro inferiore per scaricare il dolore e cercai la mano di Martìn nelle coperte senza trovarla "O Nairobi, o Helsinki" lo guardai negli occhi "Perdo tutti" dissi con sguardo languido e poi mi abbandonai sulla sua spalla. Aveva un buon odore, di pulito. Lo sentii sospirare, anche lui aveva una paura fottuta ma a differenza mia non poteva permetterselo "Ei ei piccola figlia di puttana" mormorò prendendomi il mento fra due dita "Nella mia rapina non muore nessuno, nessuno okay?" non risposi, il silenzio prese il posto delle parole per qualche minuto e risultò essere quasi confortante "Non posso permettermi di perdere te" sussurrò come se non volesse farmi sentire. In quel momento pensai che ci tenesse davvero tanto a me. Se avessi saputo di mio padre, lo avrei capito. Mi passò le dita nei lunghi capelli "Ti proteggerò costi quel che costi, consegnerei tutti pur di salvare te" ridacchiai e lui con me "Magari questo non farlo" mormorai abbandonandomi sul cuscino. Era caldo. Lui rise e un senso di malinconia mi colse nel centro del petto. Forse, avrebbero potuto non esserci mai più nottate come quelle e allora tentai di godermi quel momento con ogni muscolo, ogni fibra, ogni nervo. Gli allacciai le braccia attorno al collo "Non voglio morire Martìn" sapevo che quella possibilità esisteva ed era concreta. Morire, non sembrava più una cosa lontana. Sembrava qualcosa di tangibile, come se potessi sentirne il sapore, tenerla in mano. Lui mi strinse a sé come non aveva mai fatto con nessuno da quando aveva subito il lutto più grande della sua vita "Non morirai Berenice" fece una pausa "Te lo prometto" sussurrò nel mio orecchio. Quelli erano gli unici momenti in cui mi permettevo di avere paura, davanti al Professore, a Nairobi, a Tokyo, dovevo essere una ragazzina sicura di sé stessa, sempre sul pezzo, che non teme la morte ma la sfida. Quella era l'idea che tutti avrebbero dovuto avere di me. Ma tutti noi abbiamo bisogno di un posto dove spogliarci delle nostre corazze. Tutti abbiamo bisogno di un posto dove tirare un sospiro di sollievo. Dove smettiamo di essere il nome di città, e torniamo ad essere noi. Così che possiamo accasciarci e vivere le nostre paure. E per me quel posto era Martìn.
"Non farmi morire, dobbiamo vivere dobbiamo trovare papà, e devi portarmi in Argentina, Nairobi deve insegnarmi a falsificare le banconote" continuai singhiozzando. Avevo diciassette anni, cosa ci potevo fare, cosa potevo desiderare se non semplicemente di vivere? Martìn faceva fatica in quei momenti. Probabilmente malediva Berlino per non essere lì a farmi da padre. Sospirò "Dimmi un posto bambina" mi asciugai le lacrime col dorso della mano e esitai "Uno qualsiasi?"-"Uno qualunque" affermò lui. Pensai alla vastità che non avevo mai potuto visitare. Pensai ai paradisi terresti, ai luoghi più esotici. Ma poi infine dissi "Parigi" mi morsi le labbra "Voglio andare sulla toureiffel" continuai. Era il posto in cui mamma avrebbe sempre voluto andare. Era il posto in cui si era innamorata di papà. Palermo ridacchiò anche se non so cosa ci trovasse di divertente "Allora appena usciremo da quella banca andremo a Parigi, mangeremo le crépes e andremo negli hotel più lussuosi dove ci tratteranno come dei cazzo di re" feci un piccolo sorriso confortata dalle sue parole. Mi fidavo di lui, in quel momento mi fidavo ancora. Il piano era suo, suo come un bambino appena uscito dal grembo, calcolato al millimetro. La fuoriuscita dell'oro era follia pura ma era realizzabile e stupefacente. Il piano era perfetto, funzionava ogni cosa. Tutto si incastrava come dei cazzo di ingranaggi. Annuii accoccolandomi sotto al suo braccio "Sai" cominciò lui umettandosi le labbra "Tua madre prima di un colpo mi svegliava sempre nel cuore della notte" disse con gli occhi brillanti di ricordi, io tesi le orecchie "E mi diceva di ricontrollare i calcoli, che forse erano sbagliati, che potevamo morire"-"E tu?" gli domandai mentre piano piano i miei muscoli si rilassavano nuovamente "Li ricontrollavo, e le promettevo che non sarebbe morto nessuno" spiegò "Ho rivisto questi calcoli in mille modi, è tutto perfetto, non morirai bambina" sospirò "Potessero uccidermi se morirai perché ti ho condotto io in questa pazzia" mi passò una mano sulla fronte con tenerezza "E non morirai" disse flebile. Quasi non lo sentii, lo stava dicendo per sé stesso per rassicurarsi. E lo stava dicendo per mio padre, come se fosse lì con noi. Lì con lui. Sospirai profondamente "Questo piano" cominciai "È una figata" ammisi "È una follia completa, l'idea dell'oro, della pompa d'estrazione" ero estasiata "cazzo Martìn ti rendi conto di cos'hai partorito?" lui ridacchiò stringendomi a sé, era fiero. Fiero del piano, fiero di me. "A mamma sarebbe piaciuto da morire, avrebbe dato qualsiasi cosa per partecipare" mormorai. Ed era vero, la mamma avrebbe amato quel piano. Come aveva amato per tutta la vita i piani di Martín. La mamma aveva dato la sua vita in mano a Martìn, a ogni rapina, con fiducia cieca. E ora gli aveva dato me. Martín mi passò una mano nei ricci scomposti "È vero, Aurora lo avrebbe amato" sentenziò. Mi ricordavo di tutte le rapine che mamma mi raccontava di aver fatto con papà. Ero così felice all'idea che avrei potuto trovare papà e andare a derubare i posti più straordinari. Con lui. Ma stavo entrando nella fossa dei leoni a testa alta. Senza sapere se ne sarei uscita. E io avevo qualcosa che gli altri non avevano: una vita in sospeso. Era vero, l'oro sarebbe uscito in maniera geniale. Ma che ne sarebbe stato di noi?Quanto sarebbe durata quell'agonia? Quanti giorni avrei dovuto resistere? Stavo morendo di paura e avrei desiderato fossilizzarmi nell'abbraccio di Martìn e non andarmene mai. Il sonno cominciò ad infilarsi sotto le mie palpebre che divennero calanti. Sospirai "Martìn" lo chiamai dopo diversi minuti trascorsi in silenzio "Dimmi Bere"-"Quando usciremo di lì" cominciai "Dai una possibilità a Helsinki, una vera possibilità" mormorai ridendo. Aveva bisogno di concedersi di amare qualcuno, e di sciogliere quell'immagine da stronzo sociopatico con cui si proteggeva. Lui fece una risatina sommessa "È innamorato di te" gli dissi, perché io lo sapevo, Helsinki l'aveva detto a me e Nairobi. Ed era come stare a sentire un bambino troppo cresciuto. E Martìn aveva bisogno di tornare ad essere bambino così da uscire da quel pantano di dolore. "Lo so" mi disse "Vedremo" borbottò con un sorrisetto beffardo, com'era egocentrico. Gli diedi una lieve pacca sulla nuca "Sei proprio uno stronzo" dissi ridendo. Il letto di Martìn era come il lettone dei genitori per i bambini, aveva un potere inestimabile che riusciva a togliermi le paure dal petto e farmi cogliere nuovamente dal sonno. Mi tranquillizzava, era caldo, accogliente e spazioso. E il calore umano mi penetrava fino alle ossa facendomi buttare fuori la paura in pochi respiri. E mi sentivo di nuovo onnipotente, di nuovo come se fossi con mamma, a casa. Durava poco, ma era bello."Posso dormire qui?" mormorai ormai già addormentata, tanto che non sentii nemmeno la risposta. Dormii lì, e Martìn mi strinse tra le braccia come aveva fatto quando ero una bimba di pochi mesi. Ero lì, vicino a lui, avevo lo stesso odore e facevo gli stessi movimenti con le labbra di quando ero piccola e dormivo, e lui mi teneva attaccata al suo petto per farmi calmare. Ero tornata da lui. Era come se Andrés avesse trovato il modo di tornare da lui, anche da morto. Lo sentiva di nuovo lì con lui. Steso accanto a sé mentre progettavano piani incredibili.
Si ricordava dei viaggi fatti con mio padre e mia madre, delle risate, del matrimonio. Si ricordava di quelle giornate un po' piatte trascorse in loro compagnia, dell'amicizia che aveva stretto con la mamma quasi ad amarsi come fratelli, e dell'amore che l'aveva tenuto legato alla nostra famiglia. E poi si rendeva conto che nessuno di loro era più li, e che a lui era stato affidato il frutto del loro amore. Mi amava tanto, e io non me ne sono mai accorta. Perché Martìn era abituato ad amare in silenzio, era abituato a mascherare i sentimenti e a fare lo stronzo. Ma lui aveva tenuto quel numero di telefono, quello della banconota, attivo per anni. Lui aveva aspettato, fiducioso. Quel numero era stato creato come numero d'emergenza e Martín aveva sempre creduto che prima o poi mia madre potesse averne bisogno. Fino a che non ero arrivata e si era ritrovato a vedermi dormire sul suo divano. Mentre dormivo lui spesso si perdeva a guardare i miei lineamenti, a piangerci su, perché avevo gli stessi occhi dell'amore della sua vita. E certi amori, come quello che lui aveva provato per Berlino, sono infiniti. Bruceranno per sempre. Potrà spegnersi tutto, potrà spegnersi qualsiasi speranza, potrà spegnersi la vita, ma quell'amore non si sarebbe spento mai. E avermi lì con lui alleviava il male che era stato costretto a provare per anni. Si sentiva la persona più legittimata a stare con me, quasi più del Professore. Quella notte dopo aver spento l'abatjour mi strinse a sé e scoccò uno sguardo fuori dalla finestra. Verso le stelle. Era il suo momento da dialogo spirituale. "Non morirà Andrés" sussurrò "Te lo prometto, me la terrò stretta" disse trattenendo le lacrime. Poi ridacchiò silenziosamente nel buio "Non pensavo che ti avrei mai riavuta bambina" parlava con me, era facile parlare con me quando dormivo. Avrei tanto voluto vedere, sentire e sapere queste dichiarazioni, per odiarlo di meno durante la rapina, per capire che Martìn era stato come il mio angelo custode quando ero rimasta completamente da sola. Mentre io ero lì e riposavo tra le sue braccia ignara di tutto, certa che avrei potuto vivere abbastanza a lungo da costruirmi una vita tutta mia. Dove avrei potuto essere ciò che desideravo. Ma alla fine sapete, per gente come me, come Martìn, come il Professore o Tokyo o Nairobi, non conta quanti anni vivi ma quanta vita c'è in quegli anni. Quanti filosofi hanno perso tempo per tentare di riassumere la vita in qualche frase quando l'unica cosa da fare è godersi ogni giorno con ogni fibra del proprio corpo. E chi riusciva a farlo meglio se non noi ladri? Io non avrei potuto avere un'altra vita, un altro destino, perché ero nata ladra, figlia di ladri, con una stirpe intera di ladri alle mie spalle. E quella era la mia tradizione di famiglia. Nonostante la paura di morire, ne andavo fiera.AUTHOR CORNER
Piccolo capitolo extra prodotto in questi giorni per nostalgia. Avrei sempre voluto dare maggior visibilità al loro rapporto, e in questa ultima stagione ho visto un Palermo che mi ha toccata particolarmente, quindi ecco qui.
Tanti bacini. Stay tuned <3
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Ay, mi niña -Casa de papel fanfiction-
أدب الهواة/cam·bia·mén·to/ Sostituzione o avvicendamento che riguarda in tutto o in parte la sostanza o l'aspetto di qualcosa o di qualcuno; La giovane Berenice Muccio aveva atteso per anni che la vita le aprisse un'uscita alternativa da ciò che lei e la madr...