XXIV

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Conoscete l'effetto farfalla? Quella condizione che si verifica in matematica e fisica per la quale piccole variazioni iniziali portano a variazioni sempre più grandi in un sistema a lungo termine. Errori piccoli, pensi che avrai tempo per sistemarli dopo, in futuro, ma quegli errori sono la chiave della tua decadenza. Dimenticarsi per un secondo di una pistola mi aveva portato ad avere un proiettile nel costato. Pensare che avrei avuto tempo per riabbracciare Martìn come un amico prima o poi mi aveva portato a una sofferenza in quel momento che nemmeno avete la capacità di immaginare.
Ah com'ero triste, e la cosa ironica era che non ero triste perché stavo morendo ma perché mi ero resa conto di quanto avrei potuto cambiare nel mio prima. L'effetto farfalla si stava violentemente abbattendo su di noi. Su di me.
Avrei desiderato che la tenda venisse a conoscenza della granata che era esplosa in quel momento. Di come le azioni di Pablo avessero creato una crepa profonda chilometri e chilometri nel nostro sistema. Uno tsunami che ci aveva violentemente travolti. Avrei voluto che Alicia Sierra conoscesse le conseguenze dell'effetto farfalla, ma in quel momento, proprio in quel momento in cui nulla sembrava potesse andare peggio, decise di giocarsi la sua carta da figlia di puttana fregandosene di qualsiasi farfalla. Le nostre mine esplodevano una dopo l'altra. Ero stata colpita io e poi sarebbe venuto il turno di Nairobi. La mia Nairobi, il destino era così ironico a volerci separate in momenti così difficili. Alicia Sierra si avvicinava a passo spedito tenendo tra le braccia l'orsetto del figlio di Nairobi, i figli sono uno dei motivi per cui tutto può crollare. Quando ci sono di mezzo i figli tutto è lecito. Pablo aveva sparato a me pensando che i suoi figli fossero in pericolo, mia madre aveva lasciato mio padre per me o viceversa, e Nairobi sentiva le colpe trafiggerle lo stomaco ogni giorno per aver perso suo figlio a causa delle pasticche di droga. Quell'orsetto, quel fottuto orsetto che si avvicinava tra le braccia di una donna incinta come fossimo al circo. L'ispettrice stava per pugnalarci mentre tutti erano accucciati al mio capezzale. Avrei voluto potermi alzare, spazzolare i vestiti come non fosse successo niente, e correre da Nairobi "Non è niente amore mio, è passato devi guardare avanti" le avrei detto e poi le avrei ricordato che dopo la morte di mia madre lei era stata colei che me la ricordava di più. L'avrei aiutata a uscire dalla fossa come avevamo sempre fatto. Nella vita si sbaglia, e si sbaglia tanto. Anche io riconobbi di aver sbagliato molte volte e lo capii lì, sputando sangue, mentre Rio ansimava senza la forza di parlare. Non potevo correre da Nairobi, e nemmeno rimediare ai miei errori.
Il vero caos non fa rumore, infatti non sentivo nulla. Solo il silenzio che si abbatteva su di noi, il fischio dello sparo nelle orecchie. Rivolsi i miei pensieri al Professore sperando che in quel momento mi stesse pensando anche lui, ma le disgrazie avevano mutilato anche lui e poteva sentire il fiato della polizia sul suo collo. Non aveva di certo il tempo per pensare a me. E quando avrebbe avuto tempo sarei già stata morta.
Non c'era niente di glorioso nella morte che stavo affrontando. Niente che ricordasse un film, o un libro. Stavo morendo da sola, anche se fisicamente non lo ero, mi sentivo così.

Morire a sedici anni non è poi così diverso che morire a novanta. Muori e sei pieno di rimorsi e rimpianti. Muori e non vuoi morire ma non vedi l'ora di smettere di sentire. La morte è un gran paradosso.
Nel momento in cui ero stramazzata al suolo come un pupazzo, Pablo aveva urlato e aveva lasciato cadere l'arma rendendosi conto dell'orrore che aveva causato. Guardandomi e vedendo il volto inorridito di sua figlia Eliza. La pistola era scivolata leggera sul marmo spinta dalle gambe di un ostaggio spaventato. Urlarono tutti coprendosi gli occhi. La morte è brutta da vedere, ti prende a pugni solo a guardarla. Persino Arturo Roman si coprì il viso rendendosi conto di ciò che aveva creato poiché non aveva valutato gli effetti collaterali di una mossa come quella che aveva voluto fare sentendosi un grande eroe. Arturo si sentì colpevole in quel momento di aver rovinato la mia vita e persino quella di Pablo che a partire da quel momento avrebbe vissuto negli incubi dei sensi di colpa. Non si gioca con la morte perché ti fotte sempre e lo fa senza alcun rancore.
L'unico che non distolse lo sguardo nemmeno per un secondo fu Rio, il mio Rio. Si trovava in pieno attacco di panico ma non toglieva le mani dalla mia ferita tentando di tamponarla mentre il sangue zampillava. Aveva spostato la mia testa sulle sue ginocchia e mi guardava. Avevo un dolore che si irradiava per tutto il corpo ma ancora aspettavo di sentire il dolore del proiettile che si schiantava contro la mia pelle.
Ci vollero dieci secondi prima che arrivasse Denver imbracciando il fucile carico.
Due secondi prima che si rendesse conto che era successa una tragedia.
Un secondo soltanto per rendersi conto che sarei morta. Un secondo è il tempo necessario per uni schiaffo e per Denver fu come riceverne uno bello forte.
"DENVER MERDA DENVER CHE CAZZO FACCIAMO" Rio urlava con un tono innaturale, sfibrato, spezzato "Va tutto bene Rio" biascicai ma nessuno mi capì, tra sangue e saliva le mie parole mi morivano in bocca. E non mi restava altro da fare se non ingoiarle.
Sentii Denver urlare, sbattere i piedi a terra. Stava perdendo il controllo.
"CHI È IL FIGLIO DI PUTTANA CAZZO" non vedevo ma sapevo che aveva l'arma puntata verso gli ostaggi "CHI È IL GRAN COGLIONE, CHI È" sparò due colpi in aria per farli cacare un po' sotto "PORCA PUTTANA" aveva un tono sfibrato e sofferto con le lacrime che stavano per rotolargli giù dagli occhi e il cuore in gola. Sapeva che non c'era alcuna speranza per farmi restare tra i vivi e quindi  se la prendeva con i responsabili della mia morte. Non doveva mollare, non in quel momento. Ormai era tutto inutile: era successo, sarebbe bello se esistesse un modo per riavvolgere il nastro della vita.
"Resisti Giacarta" Rio mi teneva il viso con una mano, sudava, piangeva ed era sporco del mio sangue fino sul collo "Resisti ti prego" era come se stesse già piangendo sul mio cadavere, respiravo a stento cercando ossigeno oltre al mio sangue e gli strinsi forte la mano "Anìbal" biascicai il vero nome di Rio in quel momento dopo averlo tenuto nella testa per giorni e giorni, aspettavo di poter essere fuori di lì con un mojito in mano per poter urlare forte il suo nome su una spiaggia , ma sentii che se non lo avessi detto in quel momento non l'avrei potuto dire mai. Pronunciare il suo nome fu la dichiarazione d'amore più bella che avessi mai potuto fargli. Non so nemmeno se mi sentì in tutta quella confusione ma in quel momento non me ne preoccupai. Anìbal, com'era bello chiamarlo per nome.
Denver arrivò a inginocchiarsi vicino a quel che restava di me e lo guardai con gli occhi languidi, implorandolo di aiutarmi a non soffrire più. Di sicuro lui e Rio si scambiarono sguardi rassegnati.
Capii la metà di tutto ciò che accadde.
Denver si tolse la maglietta per tamponarmi la ferita e in quel momento arrivò Helsinki seguito da Stoccolma. Nella mia testa parlavo moltissimo, dicevo moltissime cose a tutti loro, raccontavo ogni cosa anche la più insignificante. Ma il brutto dei traumi è che mentre ti sembra di raccontare la divina commedia annaspi come uno scoiattolo colpito da un fucile e tu non lo saprai mai.
"Continua a respirare ragazzina okay? Non morirai oggi non qua non fare la figlia di puttana" Denver, Denver, le persone come noi nascono e muoiono facendo i figli di puttana.
Rio quasi aveva smesso di respirare e Denver se ne accorse dopo qualche secondo con un unico senso di panico che vagava nei loro occhi "RIO RIO RESTA CON ME VAI A SCIACQUARTI LA FACCIA E RESTA CON NOI CAZZO" il mio piccolo Rio, tentai di portargli una mano alla guancia ma non ci riuscii, ogni muscolo era in fiamme.
Nemmeno mi accorsi che Tokyo era inginocchiata accanto alla mia testa. Avrei voluto chiedere scusa anche a lei. Avrei desiderato tanti morire senza colpe.
"CHIAMATE PALERMO MUOVETEVI NON ABBIAMO TEMPO" Urlò e c'erano molte voci che parlavano della mia ferita, del mio cuore, di minuti, secondi che mi rimanevano.
"MERDA" era Tokyo che dopo avermi spogliata aveva la vista completa del punto in cui ero stata distrutta, anche Helsinki si inginocchiò accanto a me bisbigliandomi parole dolci, tutti al mio capezzale come fossi il fottuto presidente. Se non altro in quel momento mi resi conto che la famiglia c'era per me.
Non c'era foro d'uscita e con gran probabilità il proiettile stava nuotando verso il cuore alla velocità di una dannata Maserati. Avevo meno di venti minuti.
Un tempo bastardo perché in venti minuti hai abbastanza tempo per pensare a cosa vorresti fare ma non abbastanza tempo per metterlo in pratica.
"Resisti, resisti bambina" Helsinki che con la sua manona esaminava la ferita, con le lacrime che gli rotolavano sulla barba. Ricordavo con un' amara nostalgia le nottate al monastero trascorse in sua compagnia. Le giocate a carte, e le risate soffocate sui cuscini.
Il cervello di Tokyo girava e girava come una lavatrice.
Denver invece mi guardava come fossi già un cadavere.
Il mio Rio dov'era finito? Stava cercando il contatto con la realtà, stava cercando aria per poterla respirare.
Non la sentivo nemmeno io, non sentivo quasi più nulla.
Stoccolma teneva a bada quei figli di puttana degli ostaggi con gli occhi ricolmi di lacrime. Avrebbe voluto venire li a sorreggermi la testa, a farmi da madre per i miei ultimi venti minuti di vita.
Avrei voluto poter salutare tutti e mettermi a scrivere una dedica per ognuno di loro come si fa in quinta elementare per i compagni di classe. Ma ormai ero fottuta. E come lo ero io lo erano tutti gli altri.

Ay, mi niña -Casa de papel fanfiction-Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora