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Entro in cucina mentre mi stropiccio un occhio, con i piedi scalzi e la maglietta che mi arriva fino alle ginocchia. Trovo un biglietto sul bancone con su scritto:

"Torno questo pomeriggio. Sono a fare le pulizie al ristorante."
Firmato, la mamma.

Un sorriso si fa spazio sulle mie labbra, che sento spaccarsi per quanto sono secche.
Un movimento che non faccio da ore e che mi ha portata a non abituare la pelle a quest'ultimo.
Mi preparo un caffè e lo verso dentro una tazza, allungandolo con del latte fresco.
Mentre giro il liquido per far squagliare lo zucchero infilo una mano nel sacchetto dei biscotti e ne estraggo una manciata.

Faccio colazione così, da sola, mentre il silenzio fa sprigionare i miei pensieri e la mia unica compagnia è il ticchettio dell'orologio e lo sfrecciare delle macchine, fuori al quartiere.
I miei occhi si puntano sul muro che separa la cucina dal salone e fissano il bianco ormai rovinato della parete.

Un muro vissuto, che ha più storie da raccontare di quanto si creda.
Quante cose sono successe in questa cucina.
Si cenava, come una vera famiglia.
Si giocava, si mangiava, si faceva merenda.
Si preparavano torte, si disegnava, si litigava, si sorrideva.
E poi cominciò il delirio.

Questo diventò il luogo in cui le nostre urla si incontravano, si sfidavano, facevano a gara a quale fosse quella più forte.
Cocci contro i muri, sul pavimento, sedie strisciate con forza, posate lasciate cadere bruscamente nel piatto pieno.
Luogo di solitudine, di riflessione, luogo di lacrime, luogo di disperazione.
Il mio angolo buio, quello lontano dal mondo, la parte della casa con cui ho più ricordi: sia positivi che negativi.

Quell'orologio, compagno dei miei singhiozzi; quella tenda, compagna dei miei tremolii; il pavimento, freddo compagno delle mie buie giornate.
Mi guardo intorno e noto che questa è una cucina vissuta, piena di emozioni, piena di sentimenti e di parole non dette.
Una cucina vuota ma piena di pensieri, piena di sguardi di sfida, sguardi amorevoli, sguardi dispiaciuti.
Una cucina piena di graffi, dai muri sporchi e saggi.

La cucina, il centro del focolare domestico, luogo in cui ci si riunisce e in cui, tutti insieme, si fa famiglia.
Una famiglia unita, dei volti davanti a dei piatti fumanti, le mane congiunte davanti ad una preghiera di gratitudine.
Ma no, qui non c'è stata nessuna famiglia. O meglio, c'è stata, ma ha smesso di esistere molto tempo fa.
Perché mangiare da soli non è famiglia.
Non è famiglia mangiare in stanze separate.
Non è famiglia non tornare a casa la sera perché ubriachi in qualche bar.
Non è famiglia piangere da soli, in silenzio, anche quando in casa non c'è nessuno.

Il biscotto si rompe dentro al latte caldo e sbatto qualche volta le palpebre, riprendendomi dal mio stato si trance.
Con il cucchiaino cerco la frolla caduta nel latte e sgocciolante me lo porto alla bocca.
Dopo aver finito la mia riflessiva colazione pulisco la tazza e la metto al suo posto, tornando in camera.

Prendo qualcosa di pulito e mi getto sotto la doccia, decidendo di non lavare di nuovo i capelli.
Dopo essermi asciugata e vestita do una spazzolata ai capelli, che grazie alle trecce di ieri sono ondulati e molto carini.
Infilo un paio di pantaloni della tuta e un semplice top nero, metto le scarpe ed esco di casa.

Raggiungo il Long Beach dopo qualche minuto.
Scendo dall'auto ed entro, ordinando due caffè è una brioche a portar via.
Dopo aver pagato rientro in macchina e appoggio il sacchetto sul sedile del passeggero, metto la cintura di sicurezza e parto.

-

Apro la porta del locale e mi guardo un pò intorno.
Sono circondata da dozzine e dozzine di tavoli rotondi con su sopra le sedie, con lo schienale rivolto verso il basso.
Vedo alcuni camerieri fare avanti e indietro dalla cucina, entrare nelle porte private, uscire nuovamente con qualche pietanza da cuocere.

Prisoner - animedifferentiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora