Parte 6 - Lev, insidie

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LEV

L'odore di tabacco e di mate che sfiora il mio volto lo conosco già, l'ho impresso nella mia mente dal primo momento in cui l'ho percepito, come un brutto ricordo che la mente si rifiuta di cancellare.

«Dove vai in giro a quest'ora?», ringhia Ramon sulla mia spalla.

Cerco di voltarmi, ma lui mi tiene fermo, appoggia una mano sul mio stomaco e mi stringe a sé. «Non ti ho spiegato abbastanza bene le regole?»

«Spero che tu vada all'inferno», le parole rotolano via sulla lingua. Dovrei essere più furbo, più sottomesso, più silenzioso. È questo ciò che gli alfa vogliono da me, ma io non riesco a domare il fuoco che scorre nelle mie vene, il fuoco della dinastia dei Vieln che nessuno ha mai spento.

«Risposta sbagliata. Stanotte sei fortunato, il governatore vuole vederti, altrimenti a te ci avrei pensato io».

Le sue parole mi stringono lo stomaco. Rimpiango il coltello che portavo sempre con me durante la fuga e che ho dovuto abbandonare il giorno in cui le guardie mi hanno catturato. Cerco di piantare i piedi a terra, ma Ramon mi trascina verso il patio della villa. La massiccia porta di legno è già aperta. Il profumo dei fiori di maracuja e orchidee che ammantano parte della facciata invade le mie narici, mi inebria.

La bellezza dei mobili, dei tappeti, dei quadri e degli arazzi non mi inganna. So che è tutta apparenza, che dietro di essi si cela il peggiore degli uomini.

Ramon mi conduce nel salone dal pavimento di marmo e le pareti di legno. Il camino è spento, presente per bellezza. Qui, dove domina il clima tropicale, non ci serve fuoco per scaldarci. La luce delle candele si riverbera sui quadri e sui soprammobili, manufatti di ceramica e cristallo. Su uno dei divani damascati siede il governatore, Francisco.

Non indossa più il suo rendigote, ma solo il cravattino e la camicia di cotone, infilata nei pantaloni. È meno impettito di questa mattina, ma gli occhi tondi e castani conservano la medesima espressione prepotente di chi crede di poter dominare il mondo e le persone che lo abitano. In questo caso il mondo è la nostra isola di cui lui ha preso possesso.

Sorseggia un bicchiere di liquore, mentre le dita dell'altra mano picchiettano sulla coscia. Fa un cenno a Ramon e quello se ne va, lasciandoci da soli. Mi domando chi altri abiti in questa casa. Dove sono i servi? Dov'è suo nipote?

«Spero che la prima giornata di lavoro sia andata bene», esordisce.

«Lavoro?», domando con ironia. La nostra non è altro che schiavitù. Stringo le labbra, questa volta mi impongo di non dire altro.

Francisco si alza. «Prendi, assaggiane un po'», dice, porgendomi il suo bicchiere.

L'idea di posare le mie labbra dove quest'uomo ha già messo le sue mi disgusta. «Non ho sete».

Un lampo di irritazione accende il suo sguardo. Non gli piace essere disubbidito.

«Come vuoi», si limita a dire, prima di posare il bicchiere su un tavolino accanto a me. Solleva una mano e la posa sul mio volto.

«Immaginavo che la tua pelle fosse così liscia», mi alita sul viso.

Passo in rassegna la stanza alla ricerca di un oggetto che possa aiutarmi a tenerlo lontano. Non sono un ingenuo: so bene cosa vuole quest'uomo da me così come so che il lamento che ho udito stanotte era di una sua vittima. Abbasso lo sguardo, lui crede sia un segno di sottomissione, io, invece, ho adocchiato un soprammobile sul tavolino al mio fianco: un cigno di cristallo nei cui occhi sono incastonate due pietre azzurre, come le mie iridi, e il cui becco è la creazione di un orafo esperto. Immagino di conficcarlo nella testa di Francisco se solo osa fare un altro passo verso di me. Con la mano stringo la camicia sperando che non si sia aperta. Non so oggi in quale stato sia il segno che svelerebbe il mio segreto. Stamattina era già sbiadito, e purtroppo non ho avuto il tempo di gironzolare tra il verde che circonda le capanne per capire se sia possibile recuperare le stesse erbe che mia madre usava per preparare l'unguento con cui lo copro.

«Sei bello, chissà quanti alfa morivano di desiderio per te, e tu magari sei stato anche tanto orgoglioso da rifiutarli. Adesso, invece, non puoi opporti». Le mani di Francisco si abbassano lungo i miei fianchi, la sua presa si stringe. Il suo odore di alfa è forte, e se fossi in calore, forse non potrei oppormi. È questa la grande debolezza degli omega: non possono sottomettere i loro corpi, nonostante la mente vorrebbe altro. Adesso, però, sono lucido.

La mie dita si allungano sul tavolino, sfioro il cristallo freddo, il becco d'oro. Preferisco essere condannato in pubblica piazza piuttosto che finire tra le braccia di questo essere disgustoso. Afferro il cigno, lo stringo.

«Lasciami», sibilo, mentre sollevo il braccio.

«Che succede qui?» Una voce imperiosa immobilizza i miei movimenti. Volgo il capo e all'ingresso del corridoio, da cui immagino si arrivi alle cucine e a un'uscita secondaria, la figura alta e muscolosa di Juan si staglia imponente.

Francisco si allontana da me, paonazzo, l'espressione di un uomo che stava per vincere a una corsa di cavalli, ma che si è visto soffiare il primo posto all'ultima curva da un avversario imprevisto.

«Cosa vuoi che succeda, nipote mio», dice.

Le mie dita lasciano subito il cigno di cristallo. Le iridi scure di Juan si incatenano alle mie. Sono sicuro che vi stia leggendo la mia colpevolezza. Non può non aver visto quello che stavo per fare, ossia fracassare la testa a suo zio. Non può tacere. Il sangue martella nelle mie tempie. I secondi che seguono sono infiniti, aspetto solo la sua parola che sarà la mia condanna definitiva.

«Nel mezzo del salone, dove tutti possono vederti», Juan ha l'ardire di rimproverare suo zio. Odio che si preoccupi solo delle apparenze, e odio me stesso per aver creduto anche solo per un attimo che questo giovane dalla pelle olivastra e abbronzata dalle lunghe cavalcate fosse un alfa con senso dell'onore. Sono tutti uguali, mi diceva sempre Nali. Aveva ragione.

Il governatore si sistema la cravatta. «Possono vedere anche te che rientri così tardi», replica. Odia essere contraddetto e lo sguardo che si scambia con Juan mi fa pensare che i due non vadano molto d'accordo. Forse litigano sugli omega con cui divertirsi. Stringo i pugni, al culmine dell'indignazione.

Juan mi si avvicina. I suoi occhi scrutano il mio volto, poi si posano per un momento sul cigno di cristallo. «Lev, giusto?»

È la fine, mi dico.

«Torna nella tua capanna. Mio zio sta andando a letto e ci rimarrà fino a domani mattina, come ogni buon governatore dovrebbe fare. Sono sicuro, zio, che vorrete darmi il buon esempio di cui farò menzione nelle lettere a mia madre».

Francisco serra le labbra, e tuttavia dissimula bene la sua irritazione. Mi affretto alla porta, senza perdere tempo a domandarmi perché Juan mi abbia coperto. Per avere un favore da me, senza dubbio.

Per stanotte, almeno, sono salvo.

La dinastia (boyxboy omegaverse) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora