Parte 2 - Lev, la cattura

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LEV

Mi legano le mani e le caviglie. Vengo spinto su un carro che a malapena è coperto da un telo per proteggermi dal vento e dalla pioggia. Un uomo si mette alla guida, l'altro invece prende posto accanto a me. Continua a fissarmi con i suoi occhi grigi, come se potessi fare qualcosa in queste condizioni. L'unica possibilità è scivolare via dal carro, ma per il momento vengo solo sballottato a destra e a sinistra lungo gli smottamenti del terreno. Sono venuti a prendermi nel cuore degli altipiani, tra la natura selvaggia e incontaminata dell'isola. Il cuore galoppa ancora nel mio petto e le tempie pulsano, la gola è secca. Non so se sopravviverò a questo viaggio, non so dove stiamo andando. Non so nulla e questo mi atterrisce.

Penso a mia madre, al fatto che sia rimasta da sola in quella capanna ormai lontana e gli occhi mi si riempiono di lacrime. Il senso di ingiustizia brucia quanto i segni ai polsi e alle caviglie. Odio questi uomini, odio tutti quelli come loro, tutti gli alfa, sia quelli nati sull'isola sia quelli venuti dall'Europa a dominare il nostro fazzoletto di terra.

Il ticchettio della pioggia non si sente più. Tra le narici si insinua l'odore di erba bagnata, ma anche quello di piante a me famigliari, e poi una brezza diversa, la salsedine, l'odore del mare. La costa. Ecco dove siamo arrivati. La mente è invasa da nuovi ricordi: le escursioni sulla spiaggia, le risate dei miei amici, lo sguardo dolce di mia madre che sorvegliava noi fratelli mentre ci immergevamo nelle acque cristalline e turchesi dell'oceano. Mi mordo le labbra per non piangere. È tutto finito, ma io non darò loro la soddisfazione di vedermi soffrire.

Il carro si ferma. Sento il sudore sulla pelle, le membra indolenzite, il respiro corto.

«È ora di scendere», mi dice l'uomo che ha fatto il viaggio con me. Poi, senza tanti complimenti, mi tira giù. I piedi toccano la sabbia umida, gli occhi non distinguono nulla se non la massa nera del mare che si stende davanti a noi, ma è più lontano di quello che pensavo. Dal modo in cui l'uomo mi stringe capisco che ha paura di una mia eventuale fuga. L'altro uomo si avvicina e porge all'altro una torcia. Il calore del fuoco mi è insopportabile, ma quello davanti a me non se ne cura.

Avvicina la fiamma al mio viso per scrutarmi, i suo occhi lascivi, le pupille dilatate dal desiderio. Mi mordo la lingua per non lasciarmi andare. Devo essere vigile.

«Non sei niente male», alita sulla mia pelle, la sua mano si insinua sotto la mia camicia. Le sue dita sono fredde e il disgusto mi invade, sento brividi di freddo e orrore affiorare sulla mia pelle.

«Il lavoro ci chiama», lo riscuote il collega.

Vengo tirato ancora fino a quando davanti ai miei occhi non emerge dall'oscurità una villa, le torce ne illuminano la facciata classica, le balaustre di marmo dei balconi, l'alto cancello di ferro che ne delimita l'ingresso. È simile alla mia casa natale, deve essere una fazenda, solo che nella mia la gente lavorava i terreni dietro un compenso, qui, invece, non saremo che schiavi, omega traditi dalla vita e dal governo.

Il cigolio del cancello che si apre mi riscuote. Come immaginavo non ci dirigiamo verso la casa padronale, riservato agli alfa e ai loro agi, ma verso una casupola in muratura.

«Gli omega dormono qui», mi spiega spiccio l'uomo.

Il silenzio non mi conforta. Sento gli uccelli, il fragore del mare, il sentiero sterrato sotto i nostri piedi, ma nessuna voce umana. Le finestre illuminate della fazenda si allontanano, trasformandosi in lucciole eteree, promessa di tranquillità che a noi omega è negata.

L'uomo bussa a una porta di un altro edificio.

«Chi accidenti è a quest'ora?», domanda una voce brusca al di là della porta.

La dinastia (boyxboy omegaverse) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora