Kay. Ho sognato che mi baciava. Devo essere impazzita. Poi credo che papà sia stato qui, stanotte, che mi abbia detto di non aver paura, che lui è sempre con me. Sono due figure che scatenano il mio senso di colpa, forse è per questo che li ho percepiti entrambi.
Papà, quanto vorrei che fossi qui.
La mia pressione è bassa, le piastrine sono basse, il morale è sottoterra, direi che sono già negli inferi.
«La sua è una cardiomiopatia dilatativa idiopatica congenita», illustra il chirurgo a due specializzandi fermi davanti al mio letto alle dieci di mattina.
«Aggravata dal rifiuto della paziente di sottoporsi ad ablazione radioelettrica e inserimento di pacemaker.»
Ora mi guardano come si fa con la cavia che ha istinti suicidi: questa non vuole curarsi, sarà una testimone di Geova?
Hanno smesso di domandarmi perché non voglia sottopormi all'intervento, ormai si limitano a indirizzarmi occhiate di sufficienza e parole di convenienza. E mi va bene così.
«Quando posso uscire?»
Il dottore s'interrompe e fa una smorfia infastidita. «Non sono ancora pronti i risultati dei suoi esami, dobbiamo prima indagarli.»
«Senta, le risolvo io l'indagine: ho fatto a botte. Fine. Sto bene e mi sto rompendo, me ne posso andare?»
«No, verrà dimessa quando sarà il momento», accenna un mezzo sorriso e fa strada ai suoi allievi che dopo di lui escono mesti senza salutare.
Sbuffo, m'innervosisco, salto giù dal letto e mi accorgo di non avere pantofole.
«Cazzo, mamma, ma non me le hai portate?», mi lamento ad alta voce. «Lo avrà fatto apposta», grugnisco, «per non farmi scappare». Arrivo in punta dei piedi fino all'armadietto di ferro e rovisto per cercare le mie Converse. Niente, ha fatto sparire le mie scarpe! E non ci sono nemmeno i vestiti!
Basta, io scappo scalza.
Arrivo nel bagno e mi osservo: un mostro pieno di lividi. Sembro una tossica che si è schiantata contro un autobus.
Allaccio meglio il camice, che sulla schiena è fatto di tanti fili da annodare. Lascia scoperte le gambe, se corro mostro pure il sedere, ma me ne frego. Quando sono certa di avere il camice abbastanza aderente addosso, mi metto in marcia scalza e furtiva lungo il corridoio del reparto. Non è orario di visitatori, stanno ancora passando i medici per le visite giornaliere e gli infermieri con i carrelli per le medicazioni, me la filo senza che nessuno badi a me. Quando sono oltre la porta antipanico vengo investita da un getto d'aria bollente che proviene da una grossa finestra lasciata aperta su un disimpegno che conduce agli ascensori. Il reparto è climatizzato, ma qui fuori tutto mi ricorda che siamo a Ferragosto. Me ne infischio, tanto sono mezza nuda, non morirò di caldo. Mi lancio giù per la scala e la percorro a grande velocità per evitare che qualcuno riconosca in me una degente in fuga, dato che ne ho tutto l'aspetto.
Non ho intenzione di passare questo giorno di festa in corsia, voglio andare a Marta, stasera sul lago ci sono i fuochi d'artificio e Chicco non vorrà perderseli. Anche se la mia intera famiglia mi ritiene un peso, Francesco mi adora e devo farlo per lui. Non è rimasto nessuno al mondo, lui è l'unico che non vede in me un anatema.
Supero la hall e il portiere al telefono non si accorge di me. Sgattaiolo sul viale e accelero il passo guardandomi i piedi col terrore di calpestare qualcosa e azzopparmi.
«Ehi, senti, scusa?», una voce mi chiama.
C'è un ragazzo in pigiama su una sedia a rotelle mezza divelta che lotta contro un dosso, non riesce a liberare la ruota.
«Puoi aiutarmi?», domanda.
Quella sedia fa scattare di nuovo il mio senso di colpa.
Mi avvicino mesta e senza dire una parola impugno i manici della sedia e mi sforzo di liberarla. Ci metto un po', la mia anemia non è d'aiuto, ma alla fine la sblocco e le ruote tornano ad allinearsi sul selciato.
«Grazie», sorride affannato. «Non passava nessuno da mezz'ora.»
«Prego», lo dico distratta, sono già concentrata sulla missione e osservo il viale che conduce all'uscita.
«Mi annoiavo», dice.
Torno a guardarlo.
Lui mi sorride imbarazzato. «Sto in camera con due vecchi rincoglioniti col femore rotto, volevo fare un giro. Ma da solo è una fatica.»
Fa sorridere anche me, almeno finché mi osserva con più attenzione e corruga la fronte.
«Che t'è successo, sei caduta dal letto?»
Abbasso lo sguardo.
Ghigna. «Stai scappando, eh?»
Ammutolisco.
«Lo farei anch'io, se potessi. Maledetta montagna.»
«Montagna?»
«Facevo una scalata con i miei amici e sono precipitato. Un volo assurdo e un ginocchio maciullato. Fine della vacanza. La riabilitazione durerà mesi.»
C'è di peggio, credimi. Ma non lo dico.
«E poi io li odio gli ospedali», aggiunge insofferente.
«A chi lo dici», condivido la smania.
Si fa cospiratorio: «Però certe volte succedono cose interessanti, tipo quella di ieri sera».
«Cioè?»
«Beh, non sono cose che interessano le ragazze», insinua malizioso.
Gonfio il petto. «Come ti pare.» Scrollo le spalle e faccio per andarmene.
«No, aspetta, se mi fai compagnia, te lo dico», mi chiama.
Non ho tempo per fare la balìa a questo ragazzo, devo scappare prima che si accorgano che non sono in stanza.
Lui pare disperato, che non voglia lasciarmi andare, avvicina le ruote ai miei piedi e diventa complice: «Il reparto di ortopedia traumatologica affaccia sul retro dell'ospedale, dove ci sono le piste per l'elisoccorso. Quando il rotore mi ha svegliato, mi sono affacciato e c'era un elicottero della Hakkin che ha trasportato qui qualcuno, sicuramente un pilota. Avrei voluto vederlo ma era tutto così super segreto. Magari era Battest. Cavolo, gli avrei chiesto l'autografo.»
Ho un sussulto.
«Ivan Battest?», dico soprapensiero.
«Ma dai», ride, «sai chi è Ivan Battest? Segui la Formula Uno? Sei forte!»
«Non la seguo, in realtà. L'ho conosciuto a una festa.»
Lui si stranisce. «Smettila.»
«Dico davvero.»
Mi sfotte: «Tu avresti conosciuto Ivan Battest a una festa? Impossibile, quello mica frequenta noi umani.»
Mi fa sorridere.
Inizio a credere che l'elicottero della società abbia condotto qui mia sorella, che sia venuta a trovarmi e che quel dannato sedativo le abbia impedito di parlarmi. Sì, deve essere andata così. Per questo non ci sono giornalisti in giro, perché non si è trattato di un pilota, ma di lei. Forse è stata proprio lei a riservarmi quelle parole, a dirmi che per me ci sarà sempre. Mi sento emozionata, non posso deluderla, devo tornare in camera. Lei potrebbe ritornare. Sapevo che mi avrebbe perdonata, che grazie al suo nuovo fidanzato finalmente avrebbe deposto le armi.
«Beh, io vado», lo saluto.
«No, dai, resta un altro po', non mi piace la mia stanza, non voglio salire», dice lui.
«Ti passo a trovare dopo, okay?», dico in marcia verso l'entrata.
«Io comunque mi chiamo Marco! Reparto traumatologia ossea», urla lui.
«Piacere, Elisabetta, reparto psichiatrico!», lo prendo in giro correndo via.
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⭐TUNING HEART⭐
RomanceCOMPLETA***Sullo sfondo di una pista di Formula Uno, un amore è proibito oltre ogni limite. * * - Dubita che le stelle siano fuoco; dubita che il sole si muova; dubita che la verità sia mentitrice; ma non dubitare mai del mio amore. - (W. Shakespea...