18 - Kay

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Virginia sussurra minacciosa nel cellulare: «Sono due piaghe, mamma, non c'è altro da aggiungere. Comunque non mi interessa, sono al Mugello, non c'è nessuna possibilità che io arrivi a Viterbo entro sera. Occupatene tu, sono figli tuoi».

Non sa che la sto osservando. La vedo infilare il telefono nella borsetta e ricomporsi, ora sorride e alza lo sguardo, cammina dritta su quei tacchi vertiginosi e si dà arie da prima donna mentre due hostess la fanno accomodare nel parterre.

Mi libero dei meccanici che mi stanno addosso da oltre venti minuti, e la raggiungo prima di scendere sulla pista.

Virginia si alza e mi butta subito le braccia al collo.

La guardo negli occhi: «Che succede?».

Sorride a cento denti. «Niente, tesoro, tutto bene.»

«Al telefono eri tesa.»

S'incupisce per un attimo ma subito le torna il guizzo euforico. «Nulla. Davvero. Torna dai tuoi piloti, io resto qui a godermi il brunch. E dopo, se vuoi, possiamo andare a fare quel bagno termale che...»

«Mi stai mentendo», la interrompo.

«Non vorresti saperlo», mormora colpevole.

«Che significa?»

«Tre settimane fa ti ho fatto una promessa. Hai detto di non voler sentire parlare di lei.»

È molto brava a mantenere la promessa, forse perché non le costa nulla. Ma io ho già lo stomaco accartocciato e il fiato mezzo spezzato.

«A meno che non fossi io a chiedere», le ricordo, «È successo qualcosa a Elisabetta?».

I suoi occhi si spalancano increduli, poi si corrugano, e la voce le esce acida: «Con lei non si può stare mai tranquilli. Stavolta pare che abbia subìto un'aggressione, ora è in ospedale a Viterbo, ma sta bene, sì insomma... è ancora viva, chi l'ammazza, quella.».

Il mio respiro accelera e devo reprimere la voglia che ho di mostrarmi preoccupato e incazzato. Devo reprimere la voglia che ho di estorcerle il nome dell'ospedale e mettermi immediatamente in viaggio per raggiungere Elis.

Mi fingo risoluto: «Allora vai, ti faccio preparare l'elicottero della società, atterrerete in meno di un'ora».

Lei apre la bocca e fa una smorfia indignata. «Sei matto? Non mi interessa andarci, io resto qui con te. Io non mi muovo da qui.»

Non sono più sicuro di riuscire a trattenermi, sto per vuotarle addosso il mio disappunto per la sua completa indifferenza verso la sorella, ma vengo interrotto.

«Ivan Battest è finito fuori pista!», urlano.

Mi volto verso il mio assistente che si sbraccia perché raggiunga la cabina.

«Devo andare», le lascio un bacio leggero sulla fronte e mi precipito di sotto planando sulle grucce maledette.

***

Virginia mi chiama mentre le pale del rotore del velivolo iniziano a muoversi, stiamo per decollare.

«Dimmi.»

La sua voce arriva afona. «Non ti ho trovato da nessuna parte, Hollistar mi ha condotta alla SPA. Sono nello spogliatoio, dove sei, al bar?»

«Sono in partenza, sarò di ritorno entro l'alba. Goditi le piscine termali e pensami.» Non le do il tempo di replicare, stacco il telefono.

«Arriveremo a Viterbo tra quaranta minuti, signore», mi comunica il pilota in cuffia. «L'ospedale ci ha dato il nullaosta ad atterrare sulla pista d'emergenza delle eliambulanze.»

Bene, le pressioni del mio amico Roberti sono servite, a quanto pare. Non sarà mai capitato al direttore sanitario di quel piccolo ospedale pubblico di ricevere una chiamata dal capo di Gabinetto in persona. La mia visita fuori programma deve restare segreta, d'altro canto, non ho avuto scelta.

Una volta a terra, chiamo la caposala e convoco anche il direttore.

«Fate sgomberare il corridoio», dico loro. «Solo personale medico, e pretendo il silenzio stampa.»

Annuiscono diligenti, sanno della mia relazione con la sorella della paziente che sto andando a trovare passando da una via secondaria, ma non capiscono la ragione di questo riserbo, e non c'è bisogno che lo facciano, devono solo assicurare la mia privacy, e la donazione cospicua che ho appena fatto all'ospedale me la garantirà.

Il mio assistente mi passa un camice e poi una mascherina chirurgica, infilo ogni cosa con molto sforzo, la mia schiena non è ancora guarita, ma chiedo e ottengo di entrare nella sua stanza senza le grucce.

«Nessuna vicina di letto, signor Moser. La paziente che era con lei è stata dimessa nel pomeriggio», mi informa la caposala del turno di notte. «La cena è stata servita tre ore fa, ora nel reparto le luci sono spente, i pazienti dormono, può andare.»

Sono solo le ventuno e trenta, ma la vita da degente è più corta, si mangia prima, si dorme prima. Forse è un modo per far passare l'apatia, o il dolore.

«Elis Loi è ancora sveglia?», non voglio farmi vedere da lei.

«No, signor Moser, la Loi è stata sedata. Voleva scappare, l'abbiamo dovuta sedare col permesso della madre, per via del trauma cranico e per i suoi problemi cardiaci. Senza i risultati degli esami, non possiamo dimetterla e non abbiamo potuto rischiare che firmasse per andarsene.»

Voleva scappare. Il mio angelo nel vento.

Mi richiudo la porta alle spalle e mi avvicino al suo letto nella semioscurità. Le tapparelle sono chiuse a metà e una luce bluastra penetra dalla finestra semiaperta.

Solo un saluto, poi me ne vado, dico a me stesso. Ma quando la vedo in viso ho un sussulto potente che mi spezza il respiro.

Non trattengo lo sgomento e parlo nel fiato: «Ma che cosa ti hanno fatto?».

Mi manca il respiro, abbasso la mascherina sul mento. Le arrivo accanto, osservo il suo volto angelico e ricoperto di ecchimosi, livido, l'alone violaceo intorno all'occhio, le labbra spaccate e maculate di sangue pesto. Le prendo la mano, piano, noto che sul dorso è stato infilato l'ago-cannula, costringo la mia schiena a chinarsi e le bacio le falangi, le nocche, il polso sottilissimo, leggero, un po' alla volta premo le labbra contro la sua pelle di seta e mi sento così impotente. Torno a osservarla e non posso più fermarmi, le arrivo sul viso e la respiro, sa ancora di fresco e di fuoco, le bacio la fronte, gli occhi, i lividi, e poi le labbra gonfie e sanguigne, questa bocca che mi fa diventare matto. Vorrei stringerla, proteggerla, uccidere chiunque si sia permesso di farle del male. I suoi lunghi capelli senza verso e dorati si perdono sul cuscino e sulle spalle nude, il camice che le hanno messo è slacciato e le lascia libero il decolleté, e vorrei baciarlo tutto, vorrei baciarla tutta.

Sussurro: «Elis, non sei sola».

Lei si muove e per un momento geme, poi la sento mormorare nel sonno: «Papà, aiutami».

Mi gela il sangue.

Il suo senso di colpa. La sua innocenza.

Si ritiene colpevole. La mia piccola guerriera.

Devo fermarmi, resistere all'istinto feroce di strapparla a questo incubo e portarla via con me.

Mi chino un'ultima volta per baciarle la fronte. «Sono qui, piccola.»

Lei parla ancora nel sonno: «Non te ne andare».

Dio. Devo calmarmi. Non dice a me.

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