25 - Elis

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In fondo sono una vittima. Costantemente bullizzata dal fato e da una sorella che cerca in ogni momento di farmi sentire in colpa. Kay non ha torto quando dice che ognuno ha il suo destino, ma se le parole e i buoni propositi fossero sufficienti per voltare pagina, non impareremmo dai nostri errori. Il senso di colpa è una punizione necessaria. Non deve diventare una scusa o una condanna, questo no, ma reprimerlo ci farebbe cadere negli stessi errori. Io ho convissuto col senso di colpa per anni, non ho mai cercato scuse, e ho deciso di lasciarmi condannare, perché non vedo come potrei voltare pagina dopo aver ucciso mio padre e mio cognato. Non pretendo di essere capita, solo di essere lasciata in pace.

Ora che so di aver espiato la mia colpa nei confronti di Virginia che sta per sposarsi, posso farlo. Ora che so per certo che Kay – che non ha negato – la sposerà, posso farlo.

Fisso l'armadietto in bagno e richiudo l'anta: da stasera smetto di prendere il farmaco.

Senza potrei sopravvivere qualche altro mese al massimo, è ormai da qualche settimana che le mie condizioni sono peggiorate, anche se non l'ho detto a nessuno. In fondo, questo è il mio destino.

Quello che non mi aspetto è la velocità con cui si presenta il conto.

In piena notte mi sveglio sudata.

«Elis! Elis!»

La urla disperate di Chicco mi arrivano alle orecchie ma non riesco a vederlo, non posso neanche aprire gli occhi, faccio fatica a respirare. Tutto diventa grigio intorno a me, sale un dolore lancinante lungo l'addome. Il pianto di mio fratello si fa sinfonico, ma l'oblio e lo stiletto sono ormai conficcati nel mio corpo, e non posso aiutarlo. Non posso prenderlo tra le braccia e consolarlo. Che stupida sono stata, non ho pensato alle conseguenze del mio gesto, non ho pensato a Francesco. Mi contorco, perdonami, perdo i sensi.

***

Mi hanno somministrato per via endovenosa tutto il farmaco che non ho voluto assumere. Significa che anche stavolta mi hanno salvata. Fisso la flebo, le gocce che piombano giù in modo cadenzato, e so che per fermare l'infusione basterebbe girare la rotellina lungo il tubo. Mi sento debole e stordita ma allungo la mano per farlo, e in quel momento entra un dottore.

«Signorina Loi, come si sente?»

Controlla l'accesso venoso, i miei parametri monitorati da una macchina accanto al letto e poi me, i miei occhi, il colore della mia pelle.

Non aspetta che io dica qualcosa, riprende a parlare con fare gentile: «Non è stato un infarto, Elisabetta, è stata una sincope».

Chiudo gli occhi.

Lui prosegue: «Una conseguenza dell'infarto del miocardio. Ha smesso di assumere gli analettici?».

Continuo a fare scena muta a occhi chiusi e lo sento sospirare.

«Che ne dice, facciamo questo piccolo interventino e ci rimettiamo in sesto?»

So che si riferisce al pacemaker e so anche che non darò mai l'assenso.

«Qua fuori c'è sua madre, la facciamo entrare, se la sente?»

Vorrei gridare.

Ascolto il suono dei suoi passi che si allontanano e poi brusii e ticchettio di tacchi.

La voce di mia madre mi investe come la sincope.

«Lo sai che Chicco è stato bravissimo?», blatera entusiasta, «quando hai collassato lui non si è perso d'animo, ha usato il tuo cellulare e ha chiamato Rudolf. Ti ha salvato la vita, quel bimbo di quattro anni. È un eroe...»

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