~8: Non esiste il e vissero per sempre felici e contenti

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Le morbide coperte mi sfiorano il viso, fisso il soffitto bianco, da dove pende un lampadario dello stesso colore. Sembra che la mia vita sia ambientata in un film o qualcosa del genere, uno di quei film in cui la protagonista non è felice, si ritrova a fare una vita che non voleva e soprattutto una di quelle storie che non finiscono con il lieto fine. Chi ha detto che la vita reale finisca sempre con il lieto fine? Nessuno. Il lieto fine è solo per le fiabe, illusioni della vita, create dalla fantasia delle persone, destinate ai bambini per fargli credere che alla fine tutti possono avere un lieto fine, un principe azzurro con cui vivere nel castello e terminare con il vissero per sempre felici e contenti.
Ma la vita non è così, non esiste il principe azzurro, né le fate madrina o animali parlanti, non esiste il e vissero per sempre felici e contenti e soprattutto non esiste il lieto fine. Semmai esistono le sorelle cattive, e tutti gli antagonisti delle fiabe, quelli sì, il mondo è pieno di persone simili.
È per questo che ho smesso di credere nell'amore e tutto quello che ne segue. Il matrimonio dei miei genitori ha contribuito, non so per quale assurdo motivo nella mia famiglia non ci sia mai stato amore, affetto. Quello che so è che mentre Kimberlee riceveva tutte le attenzioni, io ero quella che veniva sempre emarginata come se non fossi importante o non fossi degna. È uno strano, non so come definirlo, meccanismo credo, che non riesco a capire da dove, o meglio quando sia iniziato.
Solo ora circondata dalla mia solitudine riesco a capire che tutti gli anni vissuti in quella casa non sono altro che una menzogna, non so di quale genere, ma ho capito che per qualche assurdo motivo mi trovo incatenata in una rete di continue bugie.

Mi alzo dal letto come se fossi improvvisamente scottata, chiudo la porta alle mie spalle e mi dirigo al piano inferiore. Cerco la cucina, ma non so dove sia. In questa casa regna un silenzio assordante che non mi aiuta per niente. Percorro il lungo corridoio color verde salvia, che in questo momento mi sembra troppo forte pur essendo una tonalità abbastanza chiara. Mi giro e rigiro alla ricerca della cucina e quando la trovo afferro la maniglia della porta come se fosse la mia unica ancora di salvezza. Dopo essermi calmata guardo l'ampio abitacolo, e mi avvicino al frigorifero. Lo apro e prendo dell'acqua. Mi siedo su uno sgabello posto dinanzi la penisola. Dei passi mi distraggono momentaneamente dai miei pensieri.

Cerco di mostrarmi calma dinanzi all'uomo che in realtà è mio marito.
«Buongiorno, spero che tu abbia dormito bene nella camera degli ospiti» afferma prendendo del succo di frutta dal frigorifero.
«Si tutto bene, oggi dovrebbe arrivare mia madre con il restante delle mie cose»
«Non potresti andarle a prenderle tu?» e questa semplice domanda innesca in me un sentimento che non avevo mai provato prima, peggio della rabbia. La vista mi si annebbia.
«Preferisco non tornare più lì dentro, e poi non dovrei darti motivazioni circa le mie decisioni, ti ho solo avvisato che oggi arriveranno le mie cose» affermo stupendomi della mia calma improvvisa, una calma piatta.
«Certo, non dovrebbe interessarmi ed è così tu poi fare quello che vuoi come anche io. Ed ora scusami ma devo andare a lavoro. Non aspettarmi torno dopo cena» va via dalla cucina e dopo poco dalla casa, lo capisco dal rumore causato dalla chiusura della porta.

Non riesco a crederci, non mi ha neanche mostrato la casa, come farò a sapere dove si trova una stanza e dove un'altra? Resto sola in una casa che non mi appartiene. Il silenzio che mi circonda mi opprime. Decido di fare delle pulizie per perdere del tempo. Salgo al piano di sopra ed entro nella mia camera. Apro le ampie tende, per poi spalancare la finestra, poi rifaccio il letto, mi giro, sulla poltrona è ancora appoggiato il mio abito da sposa, mi avvicino e con la mano sfioro la candida stoffa bianca della gonna. Ma un momento di rabbia mi assale improvvisamente come se la tenessi nascosta da troppo tempo. Afferro l'abito da sposa e lo butto per terra, le lacrime mi scendono copiose sul viso, mi accascio sul pavimento e raccolgo l'abito, lo metto in un sacchetto e lo sistemo lontano dalla mia vista. Mi siedo con le spalle al muro e porto le mie gambe il più vicino possibile al mio corpo come per farmi da scudo. Mi sento così vulnerabile, è come se fossi uscita dalla campana di cristallo che avevano costruito i miei genitori. E ho paura. Ho paura di quello che mi capiterà fuori questa campana, paura del futuro, ho paura di non essere più al sicuro.

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