CAPITOLO V

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Ciò che siamo e ciò che eravamo

Erano passati quindici anni da quel giorno, ed io non potevo essere più cambiata. Tutti noi eravamo cambiati, o meglio, chi era sopravvissuto.

Eravamo partiti un trenta ed eravamo rimasti solo in otto. Peggio di quanto pensassi. Tate, ad esempio, non ce l'aveva fatta, e mi era dispiaciuto perché era davvero un tipetto simpatico.

-Yael, sei tra noi?- mi domandò Tristano, avvicinandosi col cavallo al mio. Lui era uno dei miei più cari amici. Era diventato un uomo principalmente solitario e taciturno, probabilmente a causa della morte del fratello. Prima lui parlava solo con Tate, quindi dopo la sua scomparsa si era chiuso in sé stesso, isolandosi dagli altri. Ma io, che non mi davo mai per vinta, riuscii a farlo aprire come avevo fatto anni prima con Artù. Parlavamo anche per ore insieme, e riuscivo persino a renderlo sarcastico. Uno dei miei poteri più utili: rendere sarcastiche le persone attorno a me.

Fisicamente era diventato un uomo affascinante. Aveva dei lunghi capelli neri, con la frangia, e dei profondi occhi grigi.

Alla fine il mio soprannome per lui era prevedibilmente diventato Gatto. A lui non dispiaceva, ormai ci aveva fatto l'abitudine e sapeva che, anche se non gli fosse piaciuto, l'avrei chiamato così lo stesso. Quindi, per quieto vivere...

Scossi la testa per ritornare al presente. –Oh sì- gli risposi, passandomi una mano sul viso.

-Sembravi pensierosa- iniziò, sbuffando per spostare alcuni capelli della sua frangia dalla faccia –e la cosa mi ha preoccupato-.

-Molto divertente, Gatto-.

-Quando arriviamo?- ci interruppe Bors, con tono lamentoso. Bors, al contrario di Tristano, non era per niente taciturno, anzi. Era diventato l'uomo più chiacchierone e con il senso dell'umorismo più sporco che io abbia mai incontrato, ma gli volevamo bene lo stesso. Più o meno. Dipendeva dai periodi.

Lui era rimasto basso, ma di certo era diventato muscoloso e tozzo. Era calvo, i suoi occhi erano marroni molto scuri e aveva un amabile/odiabile sorrisetto malizioso permanentemente scolpito in faccia.

Mi voltai leggermente verso di lui. –Perché, Bors? Devi fare i bisognini?-.

-No, non sono mica come te-. Gatto tentò di trattenere una risatina, con poco successo.

Mi misi una mano sul cuore, fingendo di essere stata colpita da ciò che aveva detto. Poi scoppiai a ridere fragorosamente.

-Siamo quasi arrivati- ci informò Galahad, affiancando Bors. Galahad era rimasto il più innocente di tutti, il più buono, e quello che non si perdeva mai d'animo. Era un uomo speranzoso, determinato, forse un po' rancoroso, soprattutto nei confronti dei romani.

Fisicamente era una persona non molto alta, di certo più di Bors, e fortunatamente i suoi capelli ricci e i suoi occhi verde-acqua erano rimasti immutati. Invece aveva deciso di farsi crescere la barba per non avere un'aria troppo infantile e per apparire più spaventoso.

-Finalmente, non vedo l'ora di incontrare quella carovana-. Bors sospirò. –Almeno dopo potremo stare in pace-.

-Ma ci pensate che questa è la nostra ultima missione?- si intromise Galvano, che cavalcava davanti a me e Tristano. Galvano era un bell'uomo, ma non il mio tipo. Aveva fatto crescere i suoi biondi capelli perché affermava che le donne li preferivano (non vi dirò l'associazione che faceva con i suoi capelli lunghi, è meglio). I suoi occhi erano diventati molto più chiari, e ora erano azzurro ghiaccio.

Lui era un grande amante delle donne, ma di certo più serio di Lancillotto. Non che ci volesse molto eh.

-L'ultima prima della prossima- bofonchiò Gatto.

-Sta zitto, uccellaccio del malaugurio!- esclamò Bors.

-Speriamo che questa volta Tristano abbia torto- sospirò Galahad.

-Aumentiamo il passo, siamo vicini- esclamò Lancillotto, che era davanti a tutti. Lancillotto, da un bel ragazzo, era passato all'essere un bell'uomo, noto soprattutto per la sua natura di dongiovanni (N.A. All'epoca il "dongiovanni" non esisteva ancora, ma praticamente non esistono sinonimi di "donnaiolo", perciò...). I suoi capelli erano rimasti mori e ricci, invece i suoi occhi si erano scuriti ulteriormente, diventando sempre più misteriosi. Oltre ad essere un donnaiolo, era anche incommensurabilmente sarcastico, quasi più di me (quasi), incommensurabilmente drammatico, incommensurabilmente testardo e incommensurabilmente insopportabile. Anche lì, nonostante tutto gli volevamo bene lo stesso. Più o meno.

Facemmo come disse, iniziando ad andare al galoppo. Il vento che soffiava contro di noi portava un'aria diversa, più leggera. Forse proprio perché quella era la nostra ultima missione, dopo quindici anni di interminabili combattimenti. Finalmente saremmo stati liberi, e la libertà ci dava già anticipazioni con quel vento fresco.

Arrivati in cima alla collina guardammo in basso, notando la carovana.

-Come promesso, la carrozza del Vescovo- affermò Galvano, tenendo in mano la sua ascia.

-La libertà, Bors!- esclamò sorridendo Galahad.

-Mhhh, ha un sapore delizioso-.

-E il tuo salvacondotto per Roma, Artù- continuò Galahad, rivolgendosi all'uomo al mio fianco.

Oh, quasi dimenticavo Artù. Artorius. Il mio migliore amico, il nostro Comandante. All'inizio lo consideravo un fratello. Insomma, eravamo praticamente cresciuti insieme, e avevamo provato le stesse emozioni. Eppure man mano che crescevamo, anche i miei sentimenti che provavo nei suoi confronti crescevano. Si erano evoluti in qualcosa che la gente comune avrebbe chiamato "amore", ma che, per una che non aveva mai amato nessuno in quel modo, rappresentava solo un enigma.

Potrei stare delle ore a parlarvi di lui. Era cresciuto davvero bene: i suoi capelli erano neri come il carbone, i suoi occhi erano azzurri come il cielo. Era diventato un uomo affascinante e magnetico, ma ovviamente c'era molto altro. Era fedele, determinato, generoso, coraggioso (ma intimorito dai sentimenti), un uomo metà romano metà britanno. Un po' come me, dato che io ero metà britanna e metà sarmata. Eravamo entrambi figli di due paesi che si odiavano tra di loro, due paesi completamente diversi. Eppure riuscivamo sempre a ritrovarci tra di noi.

Lui voleva trasferirsi a Roma, quando questa storia sarebbe finita, e mi aveva chiesto di seguirlo. Come sorella ovviamente. Ero certa che per lui fossi solo un membro della sua famiglia, nulla di più, nulla di meno. Sempre meglio di niente.

Lo guardai, aspettandomi di trovarlo sorridente. –Artù, tutto bene?- domandai, vedendolo invece preoccupato.

Aveva uno sguardo sospettoso, mentre guardava la carovana che costeggiava un bosco. Quel suo sguardo l'avevo visto troppe volte, e purtroppo lo conoscevo bene. Significava solo una cosa: un'imboscata.

-Artù?- ripetei, ma invece di guardarmi, voltò il viso nella mia direzione, senza staccare gli occhi da quel punto.

Non riuscivo a vedere nulla di strano, finché una freccia colpì un ufficiale romano che era in testa alla carovana, facendolo cadere da cavallo. Subito dopo centinaia di uomini uscirono dai boschi, correndo verso i soldati romani.

-Woad!- esclamò Artù, estraendo la spada dal fodero.

-Certo che tu un presentimento sbagliato mai, eh?-.

Gli Woad erano una tribù britanna, proveniente da nord del Vallo di Adriano. Erano indigeni, persone che volevano strappare la propria terra agli invasori romani. Non li potevo biasimare, ma li dovevo combattere.

-Andiamo a salvare quelle chiappe vescovili- affermò Bors, in preda a uno dei suo attacchi di finezza.

Tutti spronammo i cavalli per accorrere in aiuto dei romani. 

Reges et equites: Kings and KnightsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora