CAPITOLO XX

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La voce cambia

Solo quando rientrai nella mia stanza notai che avevo ancora una questione in sospeso. Artù. Facendo il punto della situazione, realizzai che il giorno seguente sarei potuta morire, e che adesso era l'unico momento di pace che ci sarebbe rimasto prima della tempesta.

Appoggiai il pugnale di Lancillotto sul tavolo e mi sdraiai sul letto, ma non riuscii a dormire. Continuavo a pensare a lui. Artù. Al mio amore mai dichiarato. Al fatto che forse avrei dovuto dichiararlo. Al fatto che lui aveva il diritto di saperlo. Al fatto che io avevo il diritto di liberarmi, di alleggerirmi di un simile peso. Insomma, l'indomani saremmo potuti morire, e io non avrei più potuto dirglielo. Ma se alla fine non fossi morta, che figura ci avrei fatto!

Raccolsi tutto il coraggio che avevo (che, in quel momento, era talmente poco che non sarebbe riuscito a riempire neanche un bicchiere di vino) e mi incamminai.

Mi fermai davanti alla porta della stanza di Artù, con il cuore in gola. Continuavo a domandarmi se fosse giusto parlargli. Sì, è giusto parlargli. Va bene.

Alla fine presi la sofferta decisione di bussare alla porta, invece di fissarla intensamente come se mi potesse dare lei la risposta.

Dall'interno sentii un "avanti" appena sussurrato, e da lì capii che non potevo più tornare indietro. L'unico modo di uscirne decentemente è morire domani, te lo dico forte e chiaro.

Aprii la porta con una lentezza esasperante, mentre il mio cuore batteva all'impazzata e mi rendeva più impacciata del solito. Quanto odio la tensione.

Appena entrata vidi Artù seduto sul letto, con i gomiti poggiati sulle ginocchia. Stranamente non indossava l'armatura (probabilmente anche prima non la portava, ma nella foga del momento non lo notai), ma una maglietta di tessuto nero e dei pantaloni di pelle, sempre neri. Proprio per tenerci allegri.

I suoi capelli scuri erano adorabilmente arruffati, con alcuni ricci ribelli che ricadevano sulla fronte. I suoi occhi blu, invece, sembravano stanchi, desiderosi di pace. Non erano gli unici.

La voce di Artù mi riscosse dai miei pensieri. –Buonasera Yael- affermò, piegando le sue labbra in un sorriso debole –non sei con gli altri a prepararti?-.

Scossi la testa. –No, veramente io...ho deciso di rimanere- ribattei, prendendo fiato. Lui alzò lo sguardo verso di me, completamente scioccato.

-No Yael-. Sapevo che me l'avrebbe impedito, era esattamente come mio padre: mi sottovalutava. Entrambi pensavano che fossi in grado di cavarmela da sola come un pesce nel deserto, ma ero molto più forte di così. E poi aveva quest'idea fissa che doveva proteggermi, come se avessi cinque anni.

-Invece sì-.

Artù sospirò e si alzò in piedi, incamminandosi verso di me. –Yael, tu meriti la libertà, non la morte- replicò, guardandomi intensamente negli occhi come solo lui sa fare. Non ti azzardare a svenire se no ti faccio svenire io.

-Non c'è forse libertà nella morte?-.

Scosse la testa. –Lascia stare i ragionamenti di Tristano, se si possono definire tali- rispose, imitando la mia postura –va' con loro-.

-Il problema è che non so dove andare, Artù- ribattei sinceramente, abbassando leggermente lo sguardo –non sono romana, non sono del tutto sarmata, non sono niente...se non ci sei tu-. L'ultima frase la sussurrai quasi, non volendo che la sentisse. 

-Cosa?- domandò, aggrottando la fronte.

-Niente- risposi frettolosamente. Bene, ora voglio proprio vedere cosa ti inventi.

Reges et equites: Kings and KnightsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora