Capitolo 12. Pessimi gusti

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«Sei sicuro al cento per cento che non ci sia alcuna possibilità che io possa venire senza partner?» Scandii bene le parole, come se ci fossero problemi di comprensione, nonostante la risposta fosse limpida come l'acqua. 

Eskild, seduto davanti a me con le gambe accavallate sotto al tavolino in legno old style, assunse una postura ritta. Si fece cadere sulla sedia da bar Ruben in legno scuro tenendo ancora il suo drink in mano. Aveva ordinato un frappè al kiwi. «Te l'ho già detto, devi avere un accompagnatore per entrare,» portò la cannuccia in plastica alla bocca e assaporò la bevanda che, stando a quanto ripeteva da quando era arrivato il suo ordine, aveva un gusto strepitoso. «Tu hai trovato qualcuno?» Feci congiungere le mie mani, appoggiando i gomiti sul tavolino ruvido, sperando in un diniego. «Mi spiace deluderti, ma ho già qualcuno.» Le mie preghiere non servirono a nulla. «E chi sarebbe la fortunata?» Sebbene la notizia non fosse stata fra le migliori, fui super curiosa di sapere l'identità della sua partner. Dopo aver rotto con Loren, le giornate gli sembravano tutte uguali. Aveva iniziato a percorrere la strada più lunga per ritornare dopo il lavoro, per tenersi in forma diceva, ma la verità era che aspettava, fino a tarda sera se era necessario, di vedere la sua ormai ex ragazza staccare dal suo turno. Mi fece male al cuore pensare che, malgrado aver subito tutto quel dolore, non riusciva a capacitarsi di averla persa. Gli mancava ed era evidente.

«La vedrai all'evento,» mi imbronciai, «e non fare quella faccia!» Divenni ancora più imbronciata. Odiavo quando venivo messa all'oscuro di tutto. Lo odiavo con tutta me stessa. Alla fine riuscii a farlo cedere, più o meno. «Non lavora con noi, perciò non la conosci,» fu una risposta molto povera, ma mi accontentai. Portai la tazza alle labbra e soffiai sul suo contenuto per farlo raffreddare. Assicurandomi che non scottasse troppo sorseggiai il mio thè verde che non ci mise molto a portarmi un po' di calore in corpo. Era Ottobre ormai, e l'aria d'estate stava svanendo man mano che i giorni passavano, come le lancette del mio orologio che, toccando la lancetta delle sette e quaranta, indicarono il momento di sbrigarsi. «Devo andare a lezione, aggiornami se hai qualche possibile compagno da presentarmi!» Afferrai la mia borsa in stoffa beige, scompigliando giocosamente i capelli del biondo. «Sarà fatto,» ripeté la stessa azione su di me e quando finalmente ci salutammo, mi misi a bordo della mia Cupra Formentor per dirigermi verso l'università.

Avevo preso la patente solo da qualche giorno, e quasi non mi sembrò vero il fatto che non fossi più costretta a sentire conversazioni delle quali la lingua mi era sconosciuta, o di sentire vibrare i miei auricolari a causa di qualche bambino urlante che non aveva alcuna intenzione di obbedire alla madre, e lo credevo bene, perché chi più di me poteva capire quel bambino? Mi era stato proposto molteplici volte di assumere un autista, ma visto che era un volere di mio padre e non mio, decisi di non ascoltarlo e di prendere l'autobus come le persone, dette da lui, normali. Ebbe molto da ridire riguardo alla questione trasporti, ma io non fui da meno a tenergli testa e ad imporre il mio volere. Detestava coloro che non lo ascoltavano e dopo aver rifiutato la sua offerta di ereditare la Rivera Ray, il suo disprezzo nei miei confronti iniziò a manifestarsi. Non era odio, era solo il suo orgoglio che, a quanto pareva, non era mai stato ferito.

Di traffico quella mattina non se ne vide neanche l'ombra, il che fu decisamente sospetto dato lo smog al quale solitamente ci si imbatteva il lunedì mattina.

Arrivai ben dieci minuti prima dell'inizio delle lezioni e mi sorprese il dovermi imbattere in un'aula completamente vuota. Erano presenti solamente un ragazzo incappucciato che, sfinito, si era disteso per recuperare le ore di sonno perse ed un gruppetto di ragazze intente a scambiarsi appunti e rossetti colorati. Non mi affrettai a raggiungere il mio posto: sprecare ulteriori energie per un posto assicurato, non ne valeva la pena. Quella mattina mi sentii particolarmente stanca, probabilmente perché la sera precedente avevo passato il mio tempo a contattare dei clienti interessati alla pubblicizzazione della futura app e, realizzando che avremmo solo sprecato soldi essenziali, declinai tutte le offerte. Serviva qualcosa di più grande. Un filo di vento sfiorò la mia spalla ed una figura, con una velocità innaturale, mi sorpassò. Timothy, con occhi affaticati e derisori, mi aveva rubato il posto.

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