Perché

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La campana annunciò l'inizio di un nuovo giorno. Eravamo tutti felici di poterci finalmente alzare da quegli scomodi e sporchi giacigli in cui eravamo obbligati a dormire.
Ogni mattina avevamo una pagnotta rafferma e un cucchiaio di minestra; la stessa minestra che avremmo mangiato anche a pranzo e a cena. Nonostante avesse un sapore disgustoso, nessuno si immaginava quali fossero gli ingredienti ma tutti la gustavano velocemente per evitare di essere derubati dal vicino, dato che la porzione era limitata.
Seguiva una giornata intera di lavoro. Lavoro forzato e a scopi non definiti.
Non siamo in tempo di guerra, né sotto regimi dittatoriali o autoritari. A dire la verità, non so come sono finito qui. Ricordo solo di essermi svegliato in un luogo diverso da quello di casa mia.
Fortunatamente ricordo chi sono: mi chiamo Andrea Sabino, ho ventisei anni e so di poter sempre contare su Patrizio, l'unico volto familiare del gruppo, nonché mio vicino di casa e di letto.
Non mi abituerò mai a questa vita di rinunce e sofferenze: ero un ricco e vivevo in una villetta al centro della città. Non ho mai lavorato ma rimanevo tutto il giorno a poltrire sull'amaca nel mio immenso giardino. Ho conosciuto Patrizio a scuola perché entrambi seguivamo una pubblica istruzione. La mia famiglia non si è arricchita facendo spese inutili: l'istruzione che forniva una scuola pubblica era efficace quanto una privata.
Il mio amico aveva un anno in meno di me ma era abituato alle fatiche perché la sua famiglia ha dovuto affrontare numerosi sacrifici per poter andare avanti. Era l'ultimo di quattro figli e, quando le sue due sorelle e suo fratello trovarono lavoro, si trasferirono fuori città ma lui rimase a vivere vicino a me. Molte volte, mentre mandavo la mia domestica a sistemare la sua casa, lo invitavo a casa mia: gli preparavo da mangiare e trascorrevamo pomeriggi interi a giocare a scacchi nel mio giardino.
Arrivammo in fabbrica. Eravamo divisi in gruppi e io, Patrizio e altre dieci persone parlavamo tutti la stessa lingua e lavoravamo il ferro. Il nostro compito era quello di fonderlo e portarlo a un altro gruppo di persone che doveva modellarlo in forme non ben definite. Nessuno si domandava quale fosse lo scopo del nostro lavoro, ma lo eseguivamo senza sosta, con poche protezioni e in attesa dell'ora di pranzo.
Dopo qualche settimana di questa routine, mi è sembrato che il mio amico sapesse dove ci trovassimo, la causa delle nostre fatiche e forse anche il nostro destino; era troppo sicuro di sé e sembrava essere a conoscenza delle novità che ci venivano annunciate. Non volevo chiedergli nulla per ora.
Intanto i mesi passarono e cominciai a fare conoscenza con i nostri colleghi e in particolare con il goloso Donatello, che durante i pasti rubava la minestra a tutti, e Paolo il timido, molto introverso e silenzioso: di notte, mentre tutti russavano, lui sembrava morto perché non si sentiva e non si muoveva e ogni mattina si svegliava con paura, pessimismo e un volto cadaverico.
Arrivò l'inverno. Le guardie ci diedero uno straccio in più per la notte ma non bastava. La neve cominciò a cadere e ricoprì tutto il campo di un bianco simile a quello della faccia di Paolo. A me piaceva molto la neve: prima di arrivare qui, ero solito portare Patrizio a fare una gita in montagna con gli sci e ci divertivamo molto. In questi giorni cominciai a odiarla perché era impossibile lavorare con il freddo. Le guardie indossavano una divisa adatta a quelle condizioni meteorologiche ma noi avevamo una semplice maglietta e un paio di pantaloni, per cui d'estate avevamo caldo e d'inverno avevamo freddo. Nonostante tutto, avevamo un fisico forte e non è mai avvenuto un calo sostenuto di prigionieri ma quell'inverno si rivelò essere uno tra i più difficili e duri.
Finalmente giunse la primavera: la stagione della rinascita. Trovai il coraggio di chiedere a Patrizio cosa sapeva della nostra situazione ma era troppo tardi: il mio amico era impazzito. Si rifiutava di mangiare e la sera usciva dalla baracca e andava fuori al freddo. Diceva: "Domani ci liberano" ma naturalmente non era mai così. Si era sempre occupato della sua igiene personale ma in questi giorni stava diventando trasandato e ripeteva continuamente quella frase.
Avevamo costruito un calendario e una mattina di giugno, dopo la colazione, ci dirigemmo verso la fabbrica e iniziammo il nostro lavoro. Io e Patrizio stavamo modellando il ferro quando la fabbrica esplose.
Mi svegliai in un letto più comodo del mio. Ero già stato in infermeria per lievi fratture, ma in quel momento ero ingessato e avevo difficoltà ad eseguire i movimenti più semplici. Non lontano dalla baracca, c'erano due infermiere che parlavano tra loro. L'esplosione mi aveva danneggiato l'udito ma compresi che l'ingordo Donatello era già stato dimesso perché poco prima dell'accaduto era fuggito in cucina in cerca di cibo. Il buon Paolo invece ci aveva lasciato per sempre: era molto vicino al luogo in cui doveva essere avvenuto il corto circuito che ha causato tutto.
Pensai al mio caro amico Patrizio e mi prese un brivido. Girai la testa con fatica alla ricerca di una posizione più comoda e vidi il mio fedele compagno. Da quello che potevo vedere era messo peggio di me ma aveva un'aria felice.
«Addio. Addio mio caro amico. È arrivato il momento di separarci ma non ti dimenticherò mai.»
Gli dissi di non essere pessimista, che ce l'avrebbe fatta e saremmo ritornati a giocare a scacchi nel mio giardino come facevamo da piccoli.
Appena ebbi finito di rassicurarlo, non sentii più nulla, percepii gli ultimi brevi battiti del mio cuore, sentii la mia anima volare in cielo: i miei occhi si chiusero per sempre.
Non venni mai a conoscenza di dove ci trovassimo, né la causa delle nostre fatiche.
Avrei rivisto Paolo? Non lo so. Non so più nulla.

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