Una gita in montagna

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Apro gli occhi. Vedo i raggi del sole che entrano timidamente dalla finestra e il loro calore mi accarezza il viso, gli uccellini mi fanno aprire il cuore con il loro armonioso canto.
Quel giorno io e i miei genitori avevamo in programma di andare nella nostra baita che dista all’incirca un’ora di macchina da casa e per raggiungerla dovevamo percorrere a piedi un sentiero lungo e tortuoso tra le rocce.
Partiamo, la strada ci corre via, arriviamo e parcheggiamo: la strada si ferma.
Sento il venticello primaverile che trasporta gli aromi dei dolci del bar situato accanto al parcheggio e dei fiori che vengono mossi come farfalle danzanti; odo il mormorio lontano lontano di un ruscello pieno di vita; invidio la neve che pallida ha già raggiunto la cima dell’appuntita vetta.
Iniziamo il cammino, i miei genitori scappano avanti; io, non essendo più allenata, rimango indietro, ma la mia stanchezza mi dà la possibilità di scorgere quello che ho intorno.
Le mie morbide mani afferrano i massi dalla forza imponente avvolti da una coperta di muschio e come le radici degli esili alberi si aggrappano al terreno. La voce del ruscello si fa sempre più forte e mi invoca a proseguire per raggiungerlo. Mamma e papà, gli unici corpi familiari, hanno già percorso questo tratto e io li seguo a distanza. Il mio corpo si appesantisce, la voglia di retrocedere si fa sentire ma il dovere di proseguire è più forte della mia debolezza.
D’improvviso il buio mi avvolge perché gli alti alberi impediscono ai raggi del sole di penetrare. La dritta via è smarrita e con essa i miei punti di riferimento: mi sono persa, intorno a me solo verde e l’unica nota di colore è quella dei miei vestiti. Comando al mio corpo di reggere: potrei fermarmi un po’ ma fa freddo e i miei genitori si preoccuperebbero. Le mie orecchie sentono qualcosa, qualcuno: è il fiume. Il suo dolce canto di vittoria mi riaccompagna verso il sentiero e per poco non scivolo dalla felicità di questo ritrovamento. Questa emozione diventa opposta; non tristezza, ma paura: paura di attraversare il ponte che mi trovo davanti, paura di cadere, paura di arrivare in cima troppo presto, paura e consapevolezza che il fiume impetuoso è troppo gelido ma non ho scelta. Il coraggio prende il sopravvento sulla paura; mentre attraverso il ponticello sento un grido legnoso e mi affretto a raggiungere l’altra sponda. Finalmente al sicuro, prendo una pigna e la lancio contro il fiume che borbotta facendola affondare come una barca nel mare in tempesta.
Lascio alle spalle l’acqua viva e finalmente vedo un prato di un verde chiaro come il sole che adesso è più intenso. Il campo è una tela variopinta di colori, suoni e odori.
Ormai sfinita mi sdraio sul tappeto erboso ed è a quel punto che noto la bellezza del paesaggio che mi circonda: nuvole che si rincorrono come pecorelle, tetti in lontananza come schizzi di pennello.
La serenità del luogo mi fa dimenticare la stanchezza ormai alle spalle che più volte era sul punto di farmi desistere dal continuare.
Mamma e papà compaiono di fronte a me.
«Dov’eri?» mi chiedono.
«A vivere.»

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