Questa non è la mia storia

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Vorrei poter dire che questa non è la mia storia, ma non sarebbe vero.
Vorrei poter urlare al mondo che sto male, ma non ci crederebbe nessuno.
Vorrei poter dire che la mia storia ha un lieto fine, ma starei mentendo e starei anche anticipando il finale.
Nella mia vita sono sempre stata "normale": niente malattie, un fisico forte, nessun disturbo dell'apprendimento, eppure forse aveva ragione chi diceva che avevo “problemi” di chissà quale genere. Alle elementari avevo un'amica (di cui non ricordo nemmeno il nome) che poi si è trasferita: stava sempre con me perché era anche più timida di me. Non abbiamo legato molto, anzi, stavamo insieme solo perché entrambe avevamo paura di stare da sole.
Quando frequentavo la scuola media ho stretto amicizia con una ragazza di nome Veronica. Era bella, divertente, estroversa, sempre pronta a consigliarmi come meglio agire. Insieme ridevamo, piangevamo, parlavamo alle spalle di chi ci stava antipatico.
Veronica aveva solo un problema: non esisteva.
Così, oltre a essere chiamata "stupida", ero diventata anche "strana", "pazza". Anche i miei genitori provavano vergogna, erano convinti che fossi troppo grande per avere un'amica immaginaria e mi obbligarono a nascondere Veronica, a fingere che fosse andata in viaggio e non l'avrei mai più rivista.
L'unica persona con cui potevo parlare liberamente era mia nonna.
«Se Veronica ti fa sentire bene, allora sto bene anch'io» mi diceva.
Io, lei e la mia amica facevamo tante chiacchierate, ci divertivamo, eravamo solo noi tre e nessuno ci disturbava.
Poi da tre siamo ritornate ad essere due.
Un pomeriggio ero tornata da scuola e, quando i miei mi diedero la notizia, io non volevo crederci. Andai in camera mia e piansi, piansi così tanto che neppure Veronica riusciva a consolarmi.
Intanto, a scuola, prendevo sempre insufficienze una dopo l'altra. Non riuscivo a concentrarmi e avevo paura di tornare a casa e rivelare i brutti voti ai miei genitori: loro mi avevano imposto di essere brava, dovevo essere la migliore e diventare un medico come loro.
Mi iscrissi al liceo scientifico, superai l'esame di terza media dopo aver vomitato due volte e pensavo che i problemi fossero finiti: nuova scuola, nuovi compagni che speravo non mi prendessero in giro e mi facessero cose terribili come quando mi gettarono lo zaino nel contenitore dell'immondizia.
Mi ero illusa.
La matematica, l'informatica, la scienza, non mi sono mai piaciute. Nelle disequazioni i miei occhi si confondevano, vedevo incognite dove non c'erano e il risultato non combaciava mai con quello del libro.
Spiegavo le difficoltà ai miei genitori e loro mi fecero fare degli esami in ospedale, ma niente.
«È tutto nella tua testa.» Sentivo ripetere questa frase ogni giorno e non ne potevo più.
Dai miei compagni, poi, non ricevevo nessun supporto; sembrava che se non avevi una certa media di voti, non eri accettato nel gruppo e diventavi lo zimbello della classe.
A scuola mi sentivo sempre male, andavo in bagno e mi mancava l'aria, durante le interrogazioni mi bloccavo, sapevo le risposte ma dalla mia bocca non usciva mai nessun suono.
Odiavo i lavori di gruppo perché quelle rare volte in cui mi facevo coraggio ed esprimevo la mia opinione, venivo sempre ignorata. Era come se non esistessi.
Un giorno alcune mie compagne di classe mi chiesero se volessi andare a pranzo con loro all'“all you can eat”. Ovviamente accettai.
Chiesi dei soldi a mio padre e domenica, verso mezzogiorno, ero già di fronte al locale. Ero così emozionata: finalmente qualcuno mi aveva chiesto di uscire insieme!
Era mezzogiorno e mezza e nessuno si era ancora presentato. Ricontrollai il luogo d'incontro. Era giusto. Inviai un messaggio sul telefono. Nessuna risposta.
Aspettai, si fece l'una, poi le due di pomeriggio. Entrai nel locale per vedere se erano già entrate, ma non vidi nessuno.
Avevo fame così mi sedetti a un tavolo e iniziai a ordinare.
Mangiai fino a stare male, ma in verità, ogni volta che ingerivo qualcosa, stavo bene.
Alla fine, sola, pagai il conto e tornai a casa.
Mentii, come al solito, dicendo che era stata una giornata fantastica ed erano tutte molto simpatiche e gentili.
Il giorno dopo, a scuola, le compagne fecero finta di nulla. Tentai di avvicinarmi per chiedere spiegazioni ma loro mi ignoravano come il resto della classe.
Durante l'intervallo non avevo nessuno con cui parlare, ma rimanevo sola a mangiare: mangiavo per sentirmi bene. La mattina prendevo dalla dispensa tutto ciò che riuscivo a trovare e non conservavo i soldi regalati dai parenti a Natale, ma mi fermavo al bar a mangiare ogni mattina.
In pochi mesi il mio peso aumentava e i miei voti diminuivano. Più prendevo un'insufficienza e più mangiavo per concentrarmi su altro, come sulla mia bocca che continuava a masticare.
Poi il mio corpo diventò uno schifo.
Mi rifiutavo di guardarmi allo specchio perché vedevo nel riflesso le immagini delle mie coetanee con quei corpi perfetti, belli. Esistono i concorsi di bellezza in cui potrebbero vincere, guadagnare notorietà, sposare l'uomo più bello e più ricco, mentre io sarei rimasta la solita sfigata che non è brava a fare nulla: né a scuola, né negli sport, né a suonare uno strumento o disegnare, cantare.
Mi sentivo in dovere di punirmi.
Iniziai a farmi del male per sentirmi bene.
Prima bruciavo la mia pelle con gli accendini, poi inizia a tagliarmi con la lama che mio padre usa per tagliarsi la barba.
Mi ricordo di una tipica giornata a scuola. Era l'ora di informatica e io ascoltavo senza capire nulla.
D'istinto presi la forbice e la nascosi nella tasca dei jeans. Chiesi di andare in bagno e il docente acconsentì.
Abbassai la tavoletta del wc e mi sedetti. Presi la forbice, alzai la manica sinistra della maglietta e iniziai. Prima piano piano. Dopo qualche secondo, iniziai a vedere delle gocce di sangue. Erano molto piccole e mi sentivo bene.
Alzai la maglietta e vidi a destra dell'ombelico delle cicatrici che non si erano ancora rimarginate del tutto. Lì faceva meno male ma il sangue cominciò a uscire comunque. Volevo continuare, volevo contare le cicatrici ma erano troppe e mi sentivo bene.
Inizai a piangere. Non per il dolore (ci avevo fatto l'abitudine), non so perché, o forse avevo troppi motivi tra cui scegliere.
Rimisi le forbici in tasca e aprii la porta.
Nel tragitto dal bagno alla classe non incontrai nessuno.
Entrai in classe, ma nessuno notò i miei occhi gonfi. Nessuno notò che le mie dita erano ancora rosso sangue. Mi sedetti e iniziai a leggere il libro di testo come tutti in quel momento.
Mi facevo schifo ma mi sentivo bene.
Tornata da scuola, trascorrevo i pomeriggi a riempire i libri di lacrime e mangiavo, mangiavo mentre i miei genitori erano al lavoro: bravi dottori, credo che si vergognavano di avere una figlia come me, chiunque si vergognerebbe. Così, rimanevo sola, come sempre.
Odiavo ogni cosa. Odiavo quando durante le feste i parenti mi facevano notare che mangiavo troppo. Odiavo quando qualcuno mi faceva domande riguardanti il mio rendimento scolastico e vedevo i miei genitori delusi.
Non ho mai avuto il coraggio di saltare dalla finestra del mio appartamento al terzo piano o qualunque cosa mi desse la possibilità di lasciare per sempre questo inutile tentativo di sopravvivere. Ci ho pensato, ma poi ho pensato a che cosa mi avrebbe detto mia nonna se lo avessi fatto. Non la voglio deludere, non lei, l'unica che non mi avrebbe mai giudicato e l'unica che mi avrebbe capito.
Scusami tanto, nonna.
E così continuo a nuotare in un mare in tempesta.
Vorrei poter dire che questa non è la mia storia, ma non sarebbe vero.
Vorrei poter urlare al mondo che sto male, ma non ci crederebbe nessuno.
Vorrei poter dire che la mia storia ha un lieto fine, ma starei mentendo e starei anche anticipando il finale.
Ogni giorno mi chiedo se tutto questo avrà mai fine.

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