PROLOGO

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Cinque anni prima

Le fredde porte della struttura si erano chiuse dietro Caroline Carter un mese prima. I giorni passati nella sua cella, tutti uguali e nel buio, avevano rappresentato per lei uno sforzo non solo fisico, ma soprattutto psicologico. Dopo trenta giorni di routine carceriera in quello strano posto aveva i nervi a pezzi, le spalle tese e sollevate come fossero armi di reazione di una belva selvatica e gli occhi stravolti di chi sembrava aver dimenticato cosa volesse dire condurre una vita normale. Era iniziato tutto da una bizzarra telefonata in cui un misterioso individuo dall'altro capo del filo le chiedeva di recarsi in un certo posto sconosciuto. Lì, se lei fosse andata, le avrebbe rivelato la verità su ciò che la tormentava da anni. Ma una volta arrivata lì aveva trovato ad attenderla un'intera squadra che l'aveva dapprima prelevata e poi narcotizzata. Quando si era risvegliata era già nella fredda e buia cella in cui avrebbe trascorso i giorni successivi. Ogni giorno, verso le quattordici, una guardia della struttura apriva la cella lasciandole intravedere l'orario sul grosso orologio a pendolo affisso ai muri del corridoio esterno. La guardia le consegnava del cibo con all'interno delle strane medicine, poi la portava in un criptico laboratorio all'interno del quale veniva analizzata da capo a piedi quotidianamente, senza che le venisse rilasciata nessuna spiegazione. Dopo circa due ore veniva riportata in cella e lì lasciata fino al giorno dopo. Tutto questo ciclicamente, per ventinove giorni di fila. Al trentesimo giorno la guardia carceraria aprì lo sportello della cella e le consegnò un completo rosso simile ad una tuta, impacchettato con cura e con su uno strano logo che rappresentava uno smile con in evidenza grossi denti da coniglio. Caroline, inerme, indossò la tuta dinanzi alla guardia carceraria, denudandosi con ribrezzo e soggezione. La guardia la incitava, senza nemmeno staccarle gli occhi di dosso.

«Muoviti, abbiamo fretta».

«Dove...dove mi porti?».

«Non sono cose che ti riguardano, capirai».

«Ma...».

La guardia carceraria sollevò il fucile che teneva immobile, in una fondina a tutto corpo adagiata sul lato sinistro.

«Ti vesti o ti ammazzo. Scegli».

Caroline, singhiozzante, infilò la strana tuta rossa e seguì la guardia, ma durante il tragitto che percorreva per dirigersi chissà dove notò un'oasi di salvezza. Una delle porte solitamente chiuse era aperta. Sul lato est della struttura, con un affaccio sulle scale di emergenza in acciaio. In trenta giorni non aveva mai visto una porta aperta. Ossigeno. Chance di salvarsi da quell'oblio incomprensibile. Non pensò nemmeno a pianificare le sue azioni. La forza della disperazione l'avrebbe aiutata: crollò al suolo fingendo di stare male e iniziò a contorcersi sul pavimento sudicio per avere compassione e attirare a sé la guardia armata.

«Che ti succede? In piedi!» urlò il secondino, ma Caroline continuava la propria sceneggiata senza curarsi delle minacce di chi avrebbe potuto ucciderla semplicemente premendo il grilletto. Il secondino si chinò su di lei: aveva il fucile in ordine, disposto in basso e infilato nella custodia di cuoio che gli accarezzava la gamba destra. Caroline sapeva che avrebbe dovuto farlo in quel preciso momento. Con uno slancio inverosimile e ad una velocità straordinaria curvò il collo all'indietro e rifilò all'uomo una violentissima testata che lo colpì dritto sul naso. Caroline udì un crack secco e quando sollevò la testa si accorse di essere riuscita nel suo intento: il secondino era riverso a terra, con il naso spappolato e le mani a coppa per trattenere la fuoriuscita di sangue. Sulla sua fronte e in mezzo agli occhi di Caroline, intanto, scendevano rivoli di sangue sottili e appiccicosi, ma non aveva il tempo di pensare. Con un colpo di reni si sollevò da terra e, mentre le urla del secondino richiamavano le attenzioni del servizio di sicurezza, Caroline era già sulle scale d'acciaio e fuggiva verso l'uscita. Sarebbe uscita da lì e avrebbe raccontato tutto, la sua vita era salva.

«Fermate quella lurida troia!» urlò il secondino a terra.

Corse fino al piano inferiore, imboccò una porta leggermente aperta e corse fino alla fine dell'enorme open space deserto. Lì c'era un ascensore. Caroline premette il tasto di accensione e l'ascensore ci mise un po' prima di aprirsi, ma lo fece. Una volta dentro, pigiò il tasto per scendere di piano, mentre le urla dei secondini e del resto del servizio di sicurezza facevano da colonna sonora di quel momento di alta tensione. Mentre la porta si chiudeva, lentamente e cigolando, Caroline vide dall'angolo in fondo alla stanza spuntare una decina di uomini armati fino ai denti correre verso di lei con tutta la rabbia possibile. Le porte dell'ascensore si chiusero, ma Caroline sentì i proiettili esplosi dalle armi dei secondini impattare contro l'acciaio della porta. Si chinò a terra con le mani sulla testa e sulle orecchie e attese che la scarica di piombo finisse. Poi si ricompose, per quanto fosse possibile farlo. Aveva selezionato piano terra. In circa trenta secondi arrivò e iniziò a correre verso la porta in vetro che aveva di fronte. Da lì avrebbe raggiunto il cortile nel quale l'avevano attirata giorni prima e da lì sarebbe potuta fuggire in campo aperto. Aveva già messo la mano sulla maniglia per uscire, quando si accorse dell'ovvio a cui avrebbe dovuto pensare prima.

Era chiusa.

Si voltò alla ricerca di un oggetto contundente per frantumare il vetro, ma l'unica cosa che trovò fu una sedia di legno. Nel frattempo una sirena rumorosissima era stata attivata da qualcuno della direzione per segnalare un'anomalia nella struttura. Colpì il vetro con la sedia uno o due volte. Niente. Ci riprovò con una rincorsa e stavolta la parte superiore della porta venne sgretolata dando vita ad una pioggia di luccicanti frammenti di vetro danzanti nell'aria. Stava per tuffarsi attraverso l'apertura quando udì un colpo secco alle sue spalle. Dapprima non si accorse di nulla, ma durò solo un secondo. Poi lo avvertì. Un bruciore intenso, lancinante, disumano espandersi al centro della schiena. Capì che la tuta che gli avevano fatto indossare aveva come obbiettivo quello di attutire i colpi da arma da fuoco e chissà cos'altro. Il dolore però restava. Fisso, disarmante. Si voltò all'indietro e crollò in ginocchio, con il fiato corto e gli occhi azzurri sgranati. Lo vide farsi strada con alle spalle l'esercito di secondini. Era il direttore della struttura e impugnava una pistola. Si avvicinò, nel suo completo in giacca e cravatta, quasi rallentando il passo, assaporando ogni movimento. Caroline capì di essere ormai in trappola quando fu accerchiata.

«Signorina Carter, il suo comportamento è intollerabile» si limitò a dire il direttore.

Caroline, dolorante, sapeva di essere ancora viva solo perché aveva la tuta indosso. Il proiettile le aveva provocato dolore, ma non l'aveva uccisa per via del materiale di ciò che aveva indosso.

«Mi...mi lasci andare...per favore».

«Le ho sparato alla schiena. Nella migliore delle ipotesi potrebbe rimanere paralizzata temporaneamente o definitivamente. E lei sa, signorina, sa che io non sopporto il disordine. Nella mia struttura le regole sono chiare. E in tutta franchezza, in queste condizioni fisiche non serve più alla causa. Arrivederci, signorina».

«No...no!».

Il direttore puntò la canna dell'arma proprio dinanzi alla fronte di Caroline e sparò. Un colpo solo, assestato al centro della fronte, che fece capitolare la donna all'indietro facendola capitolare all'indietro. Caroline atterrò sulla cascata di capelli color rame. Il foro sulla testa a simboleggiare la sua rivoluzione.

Il direttore consegnò l'arma ad uno dei suoi secondini e sorrise.

«Su, su...tutti al lavoro. Spostate la signorina da qui e proseguiamo con i nostri compiti» e se ne andò come se nulla fosse. 

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