Find Yourself ~ 7

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Feci fatica ad alzarmi la mattina seguente. Mi sentivo molto più stanco di quando ero andato a dormire e la testa mi doleva terribilmente.

Ciononostante, mi feci forza pensando alla sera precedente e mi alzai a prepararmi un caffè.

Fuori era molto fresco, così decisi di cambiare giacca. Mi sentivo molto più a mio agio con quel capo di vestiario, quindi forse fu per questo che andando al lavoro mi venne voglia di saltellare.

Passai a salutare il mio amico che aveva un bar all'angolo e presi il secondo caffè.

Quando accesi il cellulare, sorseggiando la bevanda bollente e scottandomi come al solito la lingua, vidi una chiamata persa: Kiera. Spensi il cellulare.

Forse voleva chiedermi a che punto fossi con la preparazione di valigie e scatoloni. In ogni caso, avevo intenzione di chiederle più tempo, un'altra settimana almeno.

In seguito decisi di chiedere ad un mio cugino di ospitarmi per un po', dato che sapevo che lui aveva un appartamento molto grande e non troppo lontano dal bar dove lavoravo.

Stranamente pensare a Kiera e al fatto che me ne stavo davvero andando dal nostro appartamento non mi metteva più tristezza addosso. Un po' di malinconia c'era ed era logico che ci fosse, però la curiosità per ciò che il futuro aveva in serbo per me prevaleva su tutto.

Sorrisi allo zucchero rimasto, insieme a poche gocce di caffè, sul fondo della tazzina.

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Appena arrivai al lavoro vidi il vecchio seduto al tavolino vicino all'acquario, intento a guardare i pesci variopinti e le alghe, i coralli finti e le rocce che formavano piccole grotte.

Il suo sguardo assorto mi faceva tenerezza. Chissà cosa gli stava passando per la testa.

Mi misi il grembiule e mi avvicinai a lui.

"Signore?".

Lui mi guardò di sfuggita, senza voltare la testa, e mi fece l'occhiolino. Poi tornò ad ammirare il pesce più piccolo, che lo stava a sua volta fissando con gli occhi sparati, due palline microscopiche.

"Centrifuga e sandwich all'avocado anche stavolta?".

"Direi proprio di no. Oggi caffè e basta".

Feci una piccola smorfia. Non me l'aspettavo proprio da quel vecchio originale. Un semplice caffè.

"Hai pensato alle mie parole dell'altra volta?" mi chiese, girandosi finalmente verso di me.

"Sì, e devo dire che sto imparando a dedicare più tempo a me stesso e a lasciarmi il passato alle spalle".

"Bravo, giovane mio" concluse sorridendomi.

Me ne tornai al bancone fiero di me stesso; mi piaceva rendere felice quel vecchio. Tutto entusiasta, gli preparai il caffè con la massima cura possibile.

"Che concentrato!" mi disse il mio collega ridacchiando.

"Sì, al contrario di te".

Rise sonoramente e mi diede una pacca sulla schiena.

Portai il caffè al vecchio, sperando anche di fermarmi a scambiare con lui ancora qualche parola, ma sembrava che avesse la mente altrove, quindi lo lasciai in pace.

Fu lui a fermarsi al banco prima di uscire. Si complimentò per il caffè e mi chiese quanti ne preparavo al giorno.

La sua domanda mi colse di sorpresa. Non conoscevo la risposta, poiché non mi ero mai posto il problema. Dissi un numero a caso, di sicuro molto approssimativo.

Lui annuì, come se fosse stato l'insegnante e io l'alunno durante un'interrogazione.

Poi mi si avvicinò all'orecchio, come se dovesse confidarmi un segreto.

"Apri gli occhi. Sei troppo intelligente per stare qui. Non hai più legami affettivi, no? Allora prendi e vai".

Lo osservai. Cercai di scrutarlo a fondo. Seriamente mi stava consigliando di licenziarmi?

"Ma come posso farlo? Io sto bene qui".

"Allora stacci. Ma ti suggerisco di pensare bene alla possibilità di non aver nessuno rimpianto nella vita. Fidati, non averli significa essere felici”. Il vecchio sospirò, poi aggiunse: “Non fare i miei stessi errori, Ash".

"Che rimpianti ha lei?" osai chiedere.

"Troppi e troppo dolorosi" rispose, guardando fuori dalla porta che dava sulla strada affollata, sul caotico mondo esterno forse pieno di rimpianti come lui.

"E come posso sapere che è la scelta giusta per me?".

"Adesso non puoi, ma se non ci provi, non lo saprai mai. Devi assumerti la responsabilità, perché nessun altro può farlo. Sii padrone della tua vita, giovane mio, e non lasciare più che nessuno detti le regole al posto tuo".

Mi faceva quasi paura la sua estrema saggezza. Quell'uomo era un muro invalicabile, una pergamena illeggibile, eppure allo stesso tempo la mia possibile fonte di libertà.

Il pensiero che potessero essere le sue parole a darmi la spinta per fare quella scelta mi riempì di gioia e gratitudine.

Sentii un groppo in gola e non riuscii a spiccicare parola. Il vecchio sembrò capire e sorrise.

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Quella sera feci la scelta più folle della mia vita. Mi licenziai da un lavoro che mi stava ormai stretto, per cercarmi qualcosa di più grande.

Mara fu così stupita che non seppe dire niente se non l'indispensabile.

Avevo lavorato in quel bar per tutti gli anni della mia giovinezza. Avevo servito e servito diligentemente, amando guardare la gente che si godeva lì i momenti di pausa.

Mi sarebbe mancato prendere le ordinazioni, preparare i caffè e scambiare quattro parole con i clienti. Questo lo sapevo e sapevo che il mio cuore avrebbe sofferto.

Però quando uscii per l'ultima volta da quel bar non potei fare a meno di mettermi a correre per le strade della mia città.

Era il tramonto e alcuni negozi stavano già chiudendo. Il giorno dopo era festa.

Qualcuno si voltò a fissarmi, ma non me ne poteva fregare di meno di ciò che passava loro per la testa.

Li compativo, poveretti, perché forse credevano che quel giorno di festa sarebbe durato per sempre e che li avrebbe resi felici. Non sapevano che la felicità vera non è qualcosa che si
sperimenta per un giorno solo, ma qualcosa che si scopre e poi non si lascia più andare.

Perché dopo il giorno di festa tutti tornano a lavorare e la gente allora dimentica la felicità.

Lungo i marciapiedi e sul lungofiume rincorrevo il sole e intanto ridevo e ansimavo. Non riuscivo a fermarmi. Temevo che altrimenti mi sarei svegliato da un sogno bellissimo.

Mi fermai solo quando arrivai sulla soglia di casa, grondante di sudore e di lacrime. Le mani mi tremavano, infatti ci misi un po' ad inserire la chiave nella serratura.

Appena entrai, mi buttai sul divano e seppellii la faccia nei cuscini più grandi che avevo.

Non mi ero ancora tolto le scarpe, ma non mi importava. Tutto ciò che desideravo era piangere e pensare a ciò che avevo appena fatto.

Per anni avevo mentito a me stesso. Riguardo a Kiera, riguardo al mio lavoro, la prima che avevo smesso di amare, ma non volevo riconoscerlo, il secondo che non avevo mai realmente amato. Era sempre stato il rimpiazzo di ciò che volevo davvero.

Mi ero sforzato affinché mi stesse a pennello, mi ero convinto che fosse giusto per me. Per anni avevo smesso di conoscermi e avevo messo a tacere la mia volontà e i miei sogni per qualcosa che credevo fosse migliore per me.

Quanto ero stato ingenuo...

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