Love Yourself ~ 2

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Alla fine andai al campetto da basket soltanto al tramonto. Il sole morente baciava la pavimentazione arancione e le ombre dei miei compagni di squadra si allungavano all'infinito. 

C'erano solo Wallace e Jack. Si stavano allenando al canestro.

Non ne buttavano dentro nemmeno uno, quegli imbecilli, eppure ridevano. Io proprio non riuscivo a capirli. 

"Hey, c'è Esther!" urlò Wallace, non so bene rivolto a chi, dato che il primo a vedermi e a salutarmi con la mano era stato Jack. 

"La solita ritardataria! Sono andati tutti via" mi disse, fissandomi e sorridendomi. 

Wallace era sempre stato gentile nei miei confronti. Forse si comportava così perché i nostri genitori si conoscevano fin da bambini e noi pure. Forse lo considerava quasi un dovere. 

"Non tutti, a quanto pare. E poi, manco fossimo un branco!" ribattei, mentre cercavo di riprendere fiato.

Jack fece una smorfia e Wallace si mise a ridere, forse perché stavo ansimando come una scema. 

"Visto che ti sei decisa a venire solo ora, ti allenerai con i palleggi. Noi intanto continuiamo a canestro". 

Annuii sbuffando. Iniziai a palleggiare piano e poi sempre più velocemente, abituandomi al ritmo martellante del pallone. 

Ad un certo punto sentii Wallace e Jack che mi salutavano, dicendo che andavano a cenare. 

Rivolsi loro soltanto un cenno, poiché ero troppo concentrata. 

Prima che me ne rendessi conto il campetto era immerso nell'oscurità. L'unica fonte di luce era un lampione solitario che si trovava fra gli alberi che delimitavano il campetto da un lato. 

Mi azzardai a fare qualche tiro a canestro. 

Non ne sbagliai uno. 

Grondavo sudore e intanto piangevo.  Correvo e scagliavo via il pallone, poi tornavo a prenderlo e lo sbattevo per terra con tutta la forza che avevo. 

Non riuscivo a liberarmene. Anche se lo buttavo via, lui mi chiamava sempre. Rimbalzava sempre. 

La luna era spuntata in cielo ed io non avevo idea di che ora fosse. Sapevo soltanto che lì c'eravamo solo io e il mio nemico e che stavamo combattendo. Come ogni volta, saremmo morti entrambi. 

Quando le gambe iniziarono a non reggermi più, afferrai il pallone e mi incamminai verso casa. 

Le strade erano quasi deserte e la ciclabile pure.

Il profumo di fiori e l'aria fresca della notte mi avvolsero come in un abbraccio. Mi circondavano il nero del cielo sopra di me e il silenzio che non riuscivo ad ignorare. Non avevo paura, però, perché conoscevo ogni angolo del mio quartiere. 

Quando finalmente fui nel soggiorno di casa, tirai un lungo sospiro e guardai l'orologio appeso al muro. 

Era davvero tardi. 

Mia mamma non era rimasta alzata ad aspettarmi. Se ne stava raggomitolata sul letto con una gamba sotto al lenzuolo e una che penzolava dal bordo. Vicino a lei giacevano dei documenti e delle lettere. Doveva aver lavorato fino a tardi. Chissà se si era ricordata di lasciarmi qualcosa da mangiare...

Ovviamente no. Dopo essermi fatta una doccia, mi farcii un panino, cenai e mi preparai per la notte. Mi misi un pigiama di cotone leggero, perché iniziava a fare davvero caldo. 

L'estate era già arrivata e con essa le tanto aspettate vacanze. 

Mi misi a letto e fissai il soffitto con la luce spenta, ma il sonno non ne voleva sapere di venire. 

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