Uno

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A volte le apparenze ingannano, ma non in quel momento. I tre, che scendevano dall'auto, erano davvero cattivi. Dei bravi purtroppo non vi era presenza alcuna. Ora, mentre si incappucciavano con un passamontagna nero, facevano davvero paura. Non erano arrivati lì, davanti ad una piccola proprietà, per un conflitto a fuoco, per cui una sola pistola a testa era fin troppo ornamentale, sapevano già che non l'avrebbero usata. Le armi pesanti potevano rimanere nel sottofondo dell'auto, per oggi.

Senza fronzoli, scavalcarono il muro della villa. Poi ci fu soltanto il panico.

Dopo un'ora circa, furono i bravi a confermare ancora apparenze fin troppo scontate: sirene, auto blu e scritte bianche identificavano le forze di Polizia. In ritardo, ma numerose. Come se il numero potesse sopperire al mancato tempismo.

La villa era isolata nella campagna tra Vimercate e Bellusco, non lontano da Monza. Non distante dalla provinciale, costeggiata da alberi che coprivano la visuale dalla strada.

Un obiettivo perfetto per agire indisturbati anche in pieno giorno. Era questo ciò che dovevano aver pensato gli uomini della banda, oltre naturalmente alla facilità di accesso alle vie di fuga.

La prima volante accostò al muretto di cinta e subito due agenti armati di mitra scesero dall'auto senza entrare nella proprietà. La seconda si fermò con il muso proprio davanti al portone d'ingresso per impedire un'eventuale fuga, sebbene fosse già chiara l'inutilità di quella scelta.

Poi fu la volta dell'auto del vicequestore e della sua scorta. Avevano mandato Francesco Motta. Gli agenti sul posto capirono quindi che tirava una brutta aria.

Il vicequestore Motta era impiegato dal Questore solo per i reati più gravi, e per quella ragione viveva sotto scorta. In quella villa doveva essere successo qualcosa di veramente terribile.

Motta salutò i due agenti e fece spostare l'auto davanti al cancello, limitandosi a fare una smorfia. L'autista della volante rispose all'ordine silenzioso con totale sottomissione.

Pistole in pugno, Motta e la sua squadra entrarono nella casa. Erano passati quindici minuti dalla chiamata dell'uomo che si presumeva essere il proprietario, ma i poliziotti sapevano bene che quello era un tempo eterno e che sicuramente la persona che aveva telefonato aveva atteso a lungo prima di farlo. Per paura, come succedeva sempre, per il terrore che attanaglia e rende impossibile ogni reazione immediata.

Quello che trovarono fu a prima vista inspiegabile: un perfetto ordine nelle cose in cui tutto sembrava essere al proprio posto. Nessun segno di colluttazione, nessuna traccia di un efferato delitto, nulla. Sebbene la telefonata fosse stata chiara, fin troppo asciutta, breve: "Hanno rapito mia figlia. Venite subito."

L'uomo, forse l'autore della telefonata, era seduto su un divano con la testa tra le mani. La moglie o la compagna, furono queste le opzioni che ipotizzò Motta, gli stava accanto muta, con la bocca semiaperta. Solo l'uomo piangeva.

Senza neppure sentire proferire un ordine, gli uomini del vicequestore si sparsero nelle varie stanze della casa, sotto in cantina e sopra nel solaio trovando quello che cercavano: una casa vuota, senza alcun dubbio.

Motta, che si era messo in piedi a un paio di metri dalle due persone, si qualificò, poi si sedette sulla poltrona di fianco all'uomo.

Attese che i suoi uomini tornassero e che con un cenno gli confermassero il segnale che spesso si sente pronunciare nei film: "libero!".

"Ditemi cosa è successo qui dentro."

L'uomo continuava a piangere e la donna era ancora sorpresa nel suo totale mutismo. Poi fu lei a riscuotersi per prima, parlando però soltanto a gesti e indicando una fotografia incorniciata sulla parete a destra del poliziotto. Motta si alzò, prese la fotografia e la porse alla donna.

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